di Claudia Consonni.
Gironzolando tra gli scaffali del supermercato e nelle pasticcerie alla ricerca di un animaletto di cioccolato da sostituire all’uovo di Pasqua, ho fatto fatica a trovare un oggetto che avesse sia la qualità che una percentuale altissima di un buon cacao tale da soddisfare il mio palato, sia una forma gradevole. Tralascio l’aspetto esteriore dell’oggetto, la grafica e il packaging per concentrarmi sulle caratteristiche formali che posso esplorare col tatto. A volte questi oggetti, anche di marche famose e che propongono cacao eccellenti, non superano l’esame dell’analisi tattile. Sproporzioni, approssimazione dei dettagli, marcato rilievo nella congiunzione degli stampi e in alcuni casi la scarsa somiglianza con l’animale reale deludono la percezione tattile. La piacevolezza dell’esperienza sfuma. E se per gusto e olfatto è appagante, il piacere estetico manca.
Tuttavia mi piace pensare che la costanza spesso premia e le persone non vedenti lo sanno. A me è capitato di trovare una bella gallina di cioccolato. È stata una piccola esperienza gratificante che mi ha aiutata a festeggiare la mia Pasqua solitaria.
Ormai siamo in tanti a far Pasqua in solitudine, come Robinson sull’isola deserta o quel principe sul suo pianetino vagante e catapultato nel deserto per un accidente. Soli perché single, vedove e vedovi, zitelle e scapoloni, divorziati, separati, dimezzati in casa e fuori. Noi siamo quelli che la domenica non va! Meglio il sabato e i feriali. Che Natale o Pasqua fa lo stesso. Che pranzare ad ogni festa con i suoceri o i genitori ci annoia, che “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi” non ce ne importa. Noi gente gentile, aperta, creativa e solitaria, siamo arcipelago fluttuante, isole pigre, indolenti esseri volubili, forse perché soli, separati e senza ancoraggio, noi abbiamo i nostri riti. I nostri pensieri non si fermano mai. E il rito che ci manca lo inventiamo.
Il mio è così.
Ho comprato una gallina, una piccola, graziosa gallina vestita d’oro. L’ho tenuta da parte qualche giorno in attesa della Pasqua, chiusa nell’ombra di un sacchetto. Adesso che il momento è giunto, la contemplo sulla tavola apparecchiata con garbo e con qualche cosa in più, la rosa nel vaso mono fiore per onorare la festa. L’ammiro al centro di un piattino di porcellana bianco bordato di azzurro e d’argento. La faccio girare su se stessa per osservarla meglio, come farebbe una mannequin davanti ad un cliente danaroso. Immagino che, per lo sforzo, le sia venuta sete. La porto a becchettare il bordo azzurro e argento, la porcellana si sa è sempre fresca. Poi la svesto dell’involucro d’oro. Ed eccola: tutta scura, levigata, dall’aroma esotico. La esamino nei dettagli: le belle proporzioni, la grazia del collo sottile e arcuato, la codina spiritosa e le ali appena accennate. Ancora l’ammiro, mentre le papille gustative si animano. Mi viene in mente un valzer di Shostakovich e la faccio girare a tempo, una, due, tre, sei volte al fine di disorientarla e stordirla. Prendo con due dita il suo collo delicato e, attenzione! M’infilo in bocca quella sua testolina. Click! Cala la ghigliottina.
– Cara, sei deliziosa!
Bevo un bicchiere d’acqua e sorrido.
Il rito è compiuto, consumato in solitudine. Niente video e nemmeno una foto per Facebook, come sull’isola deserta o sul pianetino di quell’altro.
– Ma il rito, non è condivisione e partecipazione?
Mi sembra di sentir obiettare.
Il rito è anche questo. Quando sono vere e sentite, condivisione e partecipazione lo rafforzano, ma il rito è il rito: è un bisogno profondo che marca l’unicità della persona. Sono le diverse componenti dell’anima ad essere coinvolte, a far festa, a premere per inventarne uno e, quando si può, costruirlo con una bella forma.
Dato il primo boccone, seguono la coda e le altre parti della gallina. Rimane l’involucro d’oro, una lamina fine, scricchiolante, che si piega e si modella a piacere.
Questo è il dono che offre il rito a chi lo sa inventare, a chi, come me, cerca in un momento di vita ordinaria un frammento di bellezza.