Giancarlo Galeazzi, docente emerito di Filosofia all’Istituto teologico marchigiano della Pontifica Università Lateranense
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Da questa rinnovata consapevolezza sarà necessario ripartire per ricostituire – salvaguardando ovviamente la salute – le relazioni incentrate sul contatto, precisandone (come abbiamo accennato) la sua corretta configurazione. Al riguardo, però, è da sottolineare che, attualmente, la cultura del contatto è messa in discussione in modo diffuso sia da una emergenza sanitaria, quella della pandemia da “coronavirus”, sia da una cultura alternativa, quella delle cosiddette tecnologie del “senza contatto”.
In primo luogo, la pandemia: quella da “covid 19” ha obbligato a adottare misure sanitarie per contenere e debellare il virus, e con esse misure sociali (politiche ed economiche) fatte valere con provvedimenti legislativi di urgenza che possono arrivare ad alterare il quadro democratico non tanto a livello formale, quanto a livello di mentalità. Lo ha avvertito, tra gli altri, il filosofo Massimo Cacciari, in un articolo apparso sul settimanale “L’espresso” del 10 maggio 2020 sotto il titolo “Pensiamoci!”: imperativo o invito? o forse solo un accorato appello. (Sia detto fra parentesi, questo come gli altri interventi di Cacciari costituiscono una serie di editoriali che si vedrebbe opportunamente raccolti in una specifica pubblicazione, in quanto, pur legati a questioni congiunturali, vanno al di là della contingenza fattuale e attingono alla vera e propria riflessione antropologica e assiologica). Ebbene, nel suo intervento, che è ben più di un articolo da magazine, Cacciari avverte che “in questi giorni abbiamo accettato necessarie limitazioni di libertà e diritti, ma occorre vigilare perché non dilaghino”. Ha così messo in guardia da una cultura che, in nome della sanità, finisce per legare contatto e contagio, in modo tale che, per rifiutare questo, si rifiuta quello, operando una svalutazione del contatto che va ben al di là della emergenza da “coronavirus”. Di fronte a certe misure, che sono state prese dal governo, viene da pensare se non si voglia insinuare: ma “che bisogno abbiamo del contatto personale?” E invece bisogna convintamente sostenere che ne abbiamo bisogno, e quindi non possiamo contrabbandare come “formidabile prevenzione di ogni pandemia” la svalutazione o emarginazione del contatto personale. “Pensiamoci – scrive Cacciari – ora, non dopo”. Pensiamoci subito, non attendiamo che sia troppo tardi.
Ed è avvertimento che torna anche in una pensatrice (non ci sono solo filosofi ma pure filosofe, e di qualità!) come Donatella Di Cesare, la quale ha in questi giorni pubblicato un volumetto su Virus sovrano? L’asfissia del capitalismo (Bollati Boringhieri, Milano 2020) dove parla di “immunopolitica” per dire (come ha sintetizzato in una recente intervista) che “politica e medicina, ambiti eterogenei, si sovrappongono e si confondono”, dando luogo a una “democrazia medico-pastorale”, che pone seri interrogativi sulle misure eccezionali che sono state prese. Questa filosofa avverte che “la crisi sanitaria non può essere il pretesto per aprire un laboratorio autoritario”, e occorre pertanto essere vigili sui “rischi repressivi” che si corrono con le “misure biosecuritarie”, tanto più che “l’immunizzazione assoluta è un miraggio”, per cui si rende necessario convivere (imparare a convivere) con virus e batteri, e con la consapevolezza della nostra vulnerabilità. D’altra parte, aggiunge La Di Cesare, “i sistemi immunitari sono un ‘arma a doppio taglio: nell’intento di eliminare l’altro, il sé finisce per uccidersi o esporsi a malattie autoimmuni. Il sé identitario non se la cava bene neppure qui. Anche perché presume un’integrità e un’identità che non esistono.” Torna così l’intreccio di contatto, contagio e contaminazione, cui si accennava.
In secondo luogo, lo “spirito del tempo”: esso “soffia in direzione delle tecnologie del ‘senza contatto’”, ha rilevato il pensatore francese Patrick Goujon (nell’articolo su “Il tatto. Relazioni giuste e parole vere”) e ha aggiunto: queste tecnologie, “per nulla condannabili, sono sintomi del tono che vogliamo darci. Efficacia, rapidità, indipendenza. L’andamento del ‘senza contatto’ è leggero, aereo: realizza a meraviglia il sogno di un’umanità liberata dalla pesantezza dei corpi e dai rischi del contatto. (…) Saturo di discorsi pubblicitari, d’immagini, di prodezze tecniche, il nostro immaginario è continuamente portato a sognare un’esistenza diversa da quella che ci radica nelle esperienze più elementari della nostra condizione terrestre”. Tuttavia – avverte questo teologo – “non scagliamo dunque troppo presto la pietra contro questo mondo tecnico-commerciale che potrebbe rilanciarla nel giardino delle nostre concezioni della vita spirituale e, più in particolare, della vita cristiana. La nostra vita ha un peso e i nostri contatti sono i primi a farcelo sentire. Ora, il cristianesimo nutre proprio un senso tattile, chiamiamolo così, dell’esistenza”. E può e deve educare ad esso. Ed è compito da non riservare solo alla Chiesa.
Infatti di una educazione al tatto e con il tatto c’è necessità per la formazione umana tout court. Da Maria Montessori a Bruno Munari non sono mancate voci autorevoli che lo hanno richiamato, ma ancora la questione attende d’essere presa nella dovuta considerazione da parte dei pedagogisti e degli educatori. Un segnale positivo è da vedere nel fatto che si è cominciato concretamente a predisporre materiale per l’educazione sensoriale e per l’esplorazione dell’ambiente, ma è al tatto specificamente che occorrerebbe prestare particolare attenzione. Viene da ricordare che il filosofo Maurice Merleau-Ponty nella sua Fenomenologia della percezione dedicò un capitolo a “la mano come figura esemplare del rapporto al mondo”.