Giancarlo Galeazzi, docente emerito di Filosofia all’Istituto Teologico Marchigiano della Pontifica Università Lateranense
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Non basta l’informazione occorre la comunicazione, direbbe anche Cacciari, il quale è tra i firmatari di un Appello, sottoscritto da 17 intellettuali, in prevalenza filosofi (ben 12), tra cui ci piace segnalare quelli che hanno partecipato ad Ancona alla nostra venticinquennale rassegna “Le parole della filosofia”: oltre a Massimo Cacciari, Umberto Curi, Sergio Givone, Pier Aldo Rovatti, Carlo Sini e Nicla Vassallo. Ebbene, questo Appello (pubblicato su “La stampa del 18 maggio 2020) intende denunciare l’inadeguatezza dell’insegnamento a distanza, e la irrinunciabilità dell’insegnamento tradizionale, caratterizzato da rapporti diretti tra alunni e tra insegnanti e alunni. Nell’Appello si denuncia come improvvido l’“appiattire il complesso processo dell’educazione sulla dimensione riduttiva dell’istruzione”, e come superficiale la convinzione della “intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto”, e si sostiene con convinzione che scuola “vuol dire anzitutto socialità in senso orizzontale (fra allievi) e verticale con i docenti”, vuol dire “formazione omnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica”.
Vengono così colte in modo essenziale le componenti fondamentali di una scuola educante e non solo istruzionale, di una scuola cioè che non può fare a meno di rapporti personali, anche tattili, tra i soggetti dell’educazione. Si vorrebbe, peraltro, aggiungere che i due modelli scolastici, se non sono da considerare intercambiabili, non sono neppure da ritenere alternativi in modo radicale o reciprocamente escludentisi, possono convivere in una proporzione che non snaturi il senso della scuola. E’ indubbio, infatti, che occorre avere consapevolezza che le nuove generazioni sono (per usare fortunate definizioni di Mark Prensky) formate da “nativi digitali” o, quanto meno, “residenti digitali”, e che una cultura mediologica si è andata ad aggiungere alle “due culture” (letteraria e scientifica), e ciascuna cultura può essere umanistica (non solo quella che finora è stata denominata come tale) a condizione che permetta di coltivare l’umano: dilatandone l’orizzonte e consapevolizzandone i limiti.
Giungerei a dire che, in questa ottica, la scuola si può configurare come il luogo privilegiato delle tre dimensioni del tatto sopra ricordate: contatto, contaminazione, contagio possono trovarvi applicazione a livello fisico e metaforico (come ho potuto constatare nella mia esperienza quasi cinquantennale di insegnamento liceale e universitario).
I contatti sono inevitabili a livello di classe e di scuola, contatti tra pari e tra generazioni: contatti reali non meno che ideali; anche le contaminazioni sono all’ordine del giorno nella scuola e nella classe e riguardano il pluralismo che connota gli studenti (per la loro provenienza socioculturale) e che connota i docenti (per la loro libertà didattica); il contagio infine contrassegna la buona scuola, se in essa operano insegnanti che non siano solo professionisti di discipline, ma propriamente “suscitatori” di energie; insomma sappiano avvicinare alla cultura con sollecitanti contatti e contaminazioni fino a contagiare, nel senso di innamorare alla cultura nelle sue molteplici espressioni.
Al riguardo vorrei citare un libro di Massimo Recalcati – L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi 2014) – in cui il noto psicoanalista riflette su cosa significa essere insegnanti In una società senza padri e senza maestri, e chiarisce che un bravo insegnante è colui che sa fare esistere nuovi mondi, che sa fare del sapere un oggetto del desiderio in grado di mettere in moto la vita e di allargarne l’orizzonte, per cui nell’ora di lezione l’oggetto del sapere si trasforma in un oggetto erotico, il libro in un corpo. Recalcati parla di “piccolo miracolo”; in realtà non è affatto piccolo, dal momento che ha il potere di cambiarti la vita.
Tutto ci porta a ribadire la necessità del contatto interpersonale, del contatto diretto, del contatto ricco della sua fisicità anche tattile. Mi vengono alla mente le parole di uno scrittore e filosofo Mirt Komel che in una recente intervista a Alessandra Pigliaru (su “Il manifesto”, 19 maggio 2020) ha detto: “il tocco può salvarci perché, nonostante le apparenze, il problema dei nostri giorni è proprio quello del tocco, dal quale ci siamo o siamo stati alienati. È per questo che la questione ha anche un senso politico, perché tange ciò che è comune a tutti noi, cioè la comunità stessa: se non possiamo essere in contatto – in contatto vero, non digitale, fittizio – uno con l’altro allora non siamo più una comunità ma un’aggregazione di atomi”.
Per concludere, vorrei dire che bisogna guardarsi dalle “persone prive di tatto” e c’è bisogno di “persone di tatto”, e tali devono essere prima di tutto gli insegnanti. In questa ottica, mi sembra che la scuola potrebbe essere configurata come il luogo privilegiato dell’esercizio del contatto, della contaminazione e del contagio in chiave letterale e metaforica, un luogo fondato su una tattilità in senso lato, cioè come fisicità sensoriale, e su una tattilità in senso stretto, per cui torna l’immagine (reale e ideale) del “prendere per mano” e del “prendersi per mano”.