Dottoressa Maria José Luongo
Ascolta il vocale ( mp3, 10 MB)
Nel 1972 vengono edificate 55 città destinate a cristallizzarsi in una dimensione senza spazio e senza tempo. Non ci sono mattoni: rami, foglie, biforcazioni delle vie, cielo a sprazzi e nubi sono frutto della penna dello scrittore Italo Calvino, che immagina un dialogo fitto e incessante tra Marco Polo e l’imperatore dei tartari Kublai Khan. Quelle raccontate dal viaggiatore veneziano, non sono solo città che si guardano con gli occhi, ma anche con la memoria, il desiderio, i sogni, i segni, gli scambi. Non solo metafore architettoniche, ma sensoriali. Calvino le definisce “Città Invisibili”, eppure esse, oltre ad essere abitate, ci abitano.
Le città di Calvino, lungi dall’essere astrazioni mentali, sono “cose vere”, impressioni tattili, paesaggi, passioni, atmosfere, corpi, acqua, luce, suono.
Nel 300 a.C. Marco Polo avrebbe potuto visitare solo le città percepibili con gli occhi: in quegli anni Aristotele definiva la visione il più nobile tra i sensi umani perché, in virtù dell’immaterialità del tipo di conoscenza che garantisce, è la migliore approssimazione possibile dell’attività della mente.
L’occhio come centro del mondo percettivo esemplifica la visione disincarnata del soggetto cartesiano, il cui solipsismo separa la mente del corpo, il soggetto dall’oggetto, l’io dal tu. Ma se noi fossimo delle entità puramente ottiche, il giudizio estetico ci sarebbe precluso. Da questa considerazione nasce la critica di Mallgrave e di Pallasmaa all’architettura contemporanea, incapace di progettare costruzioni a misura d’uomo in virtù dell’esagerato predominio attribuito a criteri formali e “purovisibilisti”.
L’architettura va inquadrata, invece, in una prospettiva multidisciplinare che unisce antropologia, storia, filosofia, estetica, biologia e neuroscienze. Questo permette di dare finalmente una risposta empirica al quesito sollevato da Wolfflin nel 1886 quando si chiedeva perché proviamo emozione davanti ad un tempio greco.
Si può concepire lo stupore e il senso di elevazione trasmessoci dalla contemplazione di un tempio dorico in puri termini visivi? Si può divorziare l’esperienza estetica dalla nostra quotidiana esperienza motoria e tattile della realtà? Recenti studi di laboratorio hanno dimostrato che questi aspetti convivono e non possono essere separati, in quanto siamo esseri dotati di un corpo che ci insegna cosa sia il peso, la contrazione, la forza.
I Greci nel costruire i templi non hanno considerato solo l’impatto visivo, ma hanno realizzato edifici “empatici” in grado di coinvolgere tutti i sensi del fruitore. In questo senso il tempio greco è un luogo accessibile a tutti perché multisensoriale. Un forte impulso a questo approccio bio-culturale è stato dato dalla scoperta dei neuroni specchio, che ci consegna una nuova nozione di intersoggettività neurobiologicamente fondata e connotata come intercorporeità. Le neuroscienze cognitive hanno dimostrato che alcune delle regioni cerebrali coinvolte nell’esperienza soggettiva di sensazioni ed emozioni sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni sono riconosciute negli altri: parliamo in questo caso di embodied simulation (simulazione incarnata).
La stessa esperienza estetica sarebbe un processo a livelli multipli che eccede un’analisi puramente visiva dell’opera d’arte: grazie ai neuroni specchio e alla simulazione incarnata “empatizziamo” (in una fase ancora pre- cognitiva) con la sofferenza e la felicità altrui, leggiamo gli stati emotivi di un altro individuo dai suoi più piccoli gesti, simuliamo le azioni altrui e le intenzioni che stanno dietro queste azioni, animiamo gli ambienti fisici con cui entriamo in contatto. Progetti esclusivamente visivi non considerano che facciamo esperienza di un edificio prima attraverso le nostre emozioni, le cui tracce neurologiche possono essere catturate tramite tecnologie di visualizzazione.
Gabriella Bartoli, Anna Maria Giannini e Paolo Bonaiuto hanno dimostrato che mentre la soddisfazione di una motivazione particolare è un’esperienza di utilità o di piacere (cibo, vestiario, riconoscimento sociale), soltanto la soddisfazione concomitante di più esigenze viene a correlarsi con quel particolare vissuto che è l’esperienza estetica. La sensazione provata è quella che Dante mette tra le labbra di Manfredi nel Purgatorio: “Quando s’ode cosa o vede che tenga forte a sé L’anima volta, vassene il tempo e l’uom non se ne avvede.” e che Goethe fa pronunciare a Faust: “Istante, sei così bello, fermati!”.
Anche il tempio dorico, secondo Wofflin, può essere letto come uno spazio empatico che genera un’esperienza estetica universale: una colonna, ad esempio, non si limita a sostenere il peso del carico posto sopra di essa, piuttosto suggerisce una forza di contrasto che aspira verso l’alto in affermazione della vita. Gli architetti del tempio, ma questo vale per ogni edificio, hanno anche anticipato l’intenzione di chi si muoveva al suo interno: se vedo delle scale voglio percorrerle, mentre una nicchia mi fa venire il desiderio di sedermi dentro di essa. L’invito implicito all’azione in molte situazioni architettoniche è una delle grandi scoperte di Kublai Khan mentre gioca con Marco Polo a scacchi: noi ci muoviamo nelle città perché le città si muovono in noi.
Se progettiamo un edificio senza tener conto della natura di coloro che lo abitano, stiamo ignorando le nostre responsabilità sociali. Molte città sono una testimonianza di ambienti privi di valori umani e della necessità di spazi sempre più empatici ed inclusivi. E questo vale anche per le città cercate quotidianamente dal nostro immaginario, distrutte dall’oblio della memoria perché mai descritte da un viaggiatore ad un imperatore o che stanno affiorando ora, mentre le stiamo raccontando.