Gerald Pirner, saggista e fotografo.
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Per il cieco − ovvero per colui che è diventato cieco – la mancanza di un’immagine visiva scatena un diluvio di immagini interiori che travolge tutti i suoi sensi simultaneamente. Se il cieco tocca un oggetto, quel tocco si trasforma in immagini che sorgono in lui interiormente. Lo stesso accade col suono, coll’odore: senza un’immagine visiva, tutte le esperienze sensoriali del cieco lo inondano di immagini interiori, proprio perché queste non sono tenute in scacco, né dominate, né addomesticate da un’immagine visiva esterna che le respinga, le nasconda dietro di sé. D’altra parte, l’immagine interiore si estende ben oltre l’immagine visiva dell’occhio: nasce ciecamente a partire dal corpo e sorge nella durata del toccare. Come se avesse occhi in ogni poro della pelle, la mano del cieco guarda tutto ciò che tocca; l’occhio toccante racchiude tutto ciò che gli si avvicina: l’odore, il suono, il toccare un oggetto, una persona, l’essere toccato dagli altri. Ma tutto ciò, attraverso la memoria e la riflessione sull’apparire, trasforma quel diluvio di immagini in un denso tessuto, fa coagulare l’apparire temporale nella materialità del suo corpo e trasforma quella stessa materialità in immaginazione, nella quale il cieco dimora come in un bozzolo. Ed è proprio questa immaginazione che appare al cieco come un’immagine fissa, che lo racchiude di nuovo in sé stesso, divenendo, per così dire, l’altra faccia del bozzolo protettivo: come una tenda che si fa seconda pelle. L’immagine interna e immaginaria del cieco, e soltanto questa, nasce così da tutti i suoi sensi e forma un tessuto di immagini evocato dagli stessi e che, tramite l’attenzione dedicata al singolo senso, può essere squarciato di nuovo, e in definitiva deve essere squarciato, perché altrimenti il cieco si troverebbe in un mondo illusorio quasi allucinatorio, che potrebbe seppellirlo in un sonnambulismo, rendendolo assolutamente inadatto alla realtà.
Ritorno alla mano
Il tocco ulteriore e attento della mano provoca una lacerazione nel tessuto d’immagini interne e immaginarie, lacerazione che, nonostante tutto, evoca con il toccare ulteriori immagini, che cercano di ricucire la lacerazione causata dalla mano stessa. Per affrontare questa esperienza pressoché infinita delle proprie percezioni sensoriali, per interromperla e al tempo stesso bandirla, il fotografo diventato cieco, costruisce immagini dalla sua memoria, da ciò che ha visto, per trasformarle in sensazioni. Ne nascono mondi completamente differenti, che egli dovrà senz’altro lasciarsi descrivere di nuovo dai vedenti, ma che si rispecchiano nella sua memoria proprio perché li conosce, perché li ha creati lui stesso e che deve creare di nuovo realmente, in modo che non gli sfuggano nei suoi sogni e che non lo assalgano da ogni parte. Il toccare è dunque da un lato un’interruzione dell’immagine, dall’altro però ne è la continuazione con altri mezzi, tramite cui si generano immagini completamente differenti dal concetto iniziale. Da questo sguardo del cieco sul mondo che un tempo ha visto, sorge, attraverso il suo toccare, una sorta di mondo specchio, che lascia emergere la vista del cieco dalle sue sensazioni, dalla sua corporeità, in un modo completamente nuovo e differente. Sui modelli che fotografa lascia che il suo tocco diventi luce: la lampada assume il ruolo di pelle e nello stesso tempo di pennello. Ma i mondi che il cieco costruisce non sono soltanto mondi con cui si limita ad arredare il suo interno, sono mondi ricoperti di immagini ripescate dalla memoria, che lo assalgono in modo fantastico, spesso tratte dalla storia dell’arte e dal cinema. Compaiono pose e gesti tratti da scene di film di Polanski, Pasolini, Buñuel o Herzog, vengono citate immagini di Francis Bacon o Caravaggio, inserite però in un contesto completamente diverso: costruzioni delle sue ossessioni, dei suoi incubi, che si solidificano nuovamente in immagini reali, in fotografie, cercando di tenere in scacco il diluvio delle immagini interne. Allo stesso tempo si crea un gabinetto degli specchi da cui far riemergere la memoria del proprio corpo come attore. Come il sonnambulo prigioniero ne “Il gabinetto del dottor Caligari”, costretto da un pazzo a derubare i suoi sogni, il cieco congela le immagini per renderle innocue. Il fotografo cieco non vede le sue foto visivamente, le rintraccia in un misto di messa in scena e arte concettuale, così che nella descrizione che ne fanno i vedenti, da un lato le sue immagini interiori si rispecchiano, ma dall’altro possono anche auto-estinguersi tramite una specie di raddoppiamento, come in uno scontro tra materia e antimateria. La descrizione della foto, essenziale per il suo lavoro, diventa lo specchio nero nel cui fluido si immerge, come nel film di Cocteau dove Orfeo incontrerà la morte piangente interpretata da una donna.
La seconda via: l’emancipazione della pelle cieca dallo sguardo dei vedenti
A causa del disagio di creare immagini attraverso il tatto, la cui bellezza può essere descritta di nuovo soltanto dai vedenti, il cieco si ritira completamente nel suo toccare e considera quel toccare come qualcosa che lacera sempre anche ciò che è stato toccato e i toccati. Senza un’immagine, ogni tocco della mano sul corpo dell’altro provoca uno squarcio, così come lo provoca su sé stesso; lo squarcio avviene anche nel suo corpo. A seguito di questa esperienza di un contatto senza immagine sono nate fotografie che, nella loro frammentazione, tracciano il toccare cieco. Concentriamo ora l’attenzione sull’autoritratto, perché nell’atto dell’auto-toccarsi l’immagine lacerata si percepisce ancora una volta, ma in modo completamente diverso, nell’esperienza del toccarsi lacerante. Così il diventare ciechi vuole essere concepito come emancipazione del cieco dalla voracità dell’occhio vedente e lui stesso lo può constatare nel toccare, un toccare che nel tastare diventa tempo e durata. In una mostra delle sue fotografie nella galleria Fhoch3 di Berlino, il fotografo cieco espone dieci autoritratti, corredati di testi, in parte concetti che stanno alla base delle immagini, in parte descrizioni poetiche, in parte raffigurazioni della loro produzione che l’autore stesso ha registrato con la propria voce, che possono essere ascoltate tramite il codice QR dal telefono cellulare. Si passa dal suo primo autoritratto, in cui egli rintraccia il processo della propria cecità, causata dalla retinite pigmentosa, alla riduzione dell’autoritratto a un’unica posa, fino ad arrivare alla trasformazione in immagine del concetto di cristianesimo basato sulla filosofia di Nietzsche, attraverso un film di Martin Scorsese e il racconto “Colloquio con l’orante” di Franz Kafka: l’autobiografico si intreccia con un’estetica alimentata dal toccare non più inteso soltanto come tenerezza, piuttosto come assalto lacerante, che strappa l’immagine dalla tridimensionalità per portarla alla bidimensionalità protettiva della fotografia.