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Azzurra Pizzi, studentessa.
La necessità di conoscere nuovi metodi e la voglia di forgiare il mio percorso professionale mi hanno portato a iscrivermi al corso di formazione nazionale sull’accessibilità ai beni culturali, concepito dal Museo Tattile Statale Omero di Ancona e tenutosi lo scorso aprile.
Affascinata dall’ampio programma e dallo spessore dell’organizzazione nonché dallo sfaccettato coinvolgimento dei relatori, sono giunta al museo presso la Mole Vanvitelliana, uno dei simboli del capoluogo marchigiano, con l’idea di lasciarmi condurre verso percorsi inusitati, che maturassero aperte riflessioni, presentassero punti di osservazione diversi e traguardassero orizzonti scevri da preordinati criteri accademici.
La malattia di mia madre ha spesso orientato la mia linea di condotta ma il conseguimento del diploma di specializzazione in beni storico-artistici mi ha indicato un’urgenza: il tentativo di colmare alcune lacune circa il ruolo dell’arte, al di là della conoscenza delle sue fasi storiche, dei cambiamenti intercorsi, dei relativi esponenti, mecenati, collezionisti susseguitisi.
Era importante per me mettere in discussione il canone tradizionale della museologia, ragionare sul concetto di copia e del suo possibile e potente impiego, considerare le esigenze ma anche le arricchenti modalità di fruizione dei diversi pubblici, indagare criticamente la tematica dell’inclusione culturale e considerare le condizioni necessarie a creare un luogo museale multisensoriale.
Imparare a guardare mettendo da parte il primato della vista era diventato nodale – e tuttora lo è dato che niente è mai dato definitivamente in quanto suscettibile di modificazioni e sempre emergenti possibilità.
Durante il corso sono stati affrontati i seguenti temi: oltre alla presentazione delle normative, degli strumenti tecnologici di ausilio, delle specificità dell’ipovisione, della cecità e della sordità, delle caratteristiche della progettazione architettonica inclusiva, dei servizi educativi, degli apparati didattici, della complessa pianificazione di percorsi pedagogici, improntati anche sull’estetica delle mani, l’asse portante delle giornate è stato contrassegnato dal riconoscimento della qualità tattile. Il discernimento analitico operato dal tatto consente infatti di avere informazioni (date superficialmente troppo spesso per scontato) sulla temperatura, sulla levigatezza, sulla ruvidezza, sulla consistenza, sul peso e sulle molteplici variabili offerte dalle superfici e dalle relative lavorazioni su di esse sviluppate.
Per guidare l’esplorazione cinestetica e tattile non si può prescindere dall’esplicitazione delle dimensioni e della natura dei materiali impiegati; anche il tempo è indispensabile affinché si possa gradualmente costruire un’immagine mentale lentamente e raffinatamente elaborata mediante l’attenzione ai dettagli e operando associazioni.
Per capire fattivamente che possiamo vedere cose diverse con il tatto, l’esperienza aptica avvenuta nella sala del museo dedicata alla scultura contemporanea si è rivelata fondamentale e illuminante: da una guida specializzata sono stata condotta bendata dinnanzi ad una scultura, di cui non avevo ricevuto alcuna informazione, se non la collocazione del suo apice. Non condizionata da ogni sollecitazione visiva, ho cominciato a toccare l’opera, le cui dimensioni a primo impatto sembravano ridotte. Seguendo il suggerimento di partire dal punto più alto della scultura, sono venuta a conoscenza dell’esile figura, la cui anatomia presentava ai miei polpastrelli semplificazioni: era scabra in alcuni punti, vibrante in altri.
Il lavorio mentale di associazioni denso di richiami formali attinti dalla storia dell’arte mi evocava il repertorio delle arti cosiddette primitive e le suggestioni impresse da artisti come Pablo Picasso, solo per citarne uno.
L’immagine diveniva sempre più strutturata a causa dei dati insoliti sopraggiunti e, agli esiti della percezione tattile, si aggiungevano anche gli odori della lega metallica, che dà corpo alla scultura.
Dopo aver riconosciuto gli elementi costitutivi principali e aver ruotato la base portante della scultura per coglierne la lavorazione a tutto tondo, ho rimosso la benda e ho riconosciuto subito Marino Marini, un artista da me approfondito perché parte integrante dell’argomento della tesi magistrale.
Avevo avuto tra le dita un’opera intrisa di drammatica modellazione e in quel momento potevo riconoscere l’opera di Marini, il Giocoliere fuso in bronzo e patinato risalente al 1953.
La durezza formale in lui osservata e riscontrata dalla critica si era palesata tra le mani e avevo finalmente potuto sentire l’irregolarità nei passaggi plastici, che rendono le sue creazioni memorie del passato: nel mio tentativo di elaborazione di complessa immagine mentale riconoscevo l’influsso subìto dall’arte etrusco-italica, sentivo la deformazione e le asperità.
Se allora la forma viene percepita, il significato insiste sull’ambito cognitivo e il simbolo fa capo alla sfera interpretativa, l’arte serve a sviluppare e ampliare competenze perché implica la costruzione della grammatica delle forme.
Con il tatto si elimina davvero il vuoto che separa le due entità, ossia l’opera da una parte e lo spettatore dall’altra: se la prima torna a vivere sotto il profilo materico, l’artista che l’ha pensata, manualmente prodotta e fisicamente realizzata viene conosciuto poiché il suo lavoro viene sentito e ripercorso; il fruitore in ultimo diventa attore, protagonista, interprete e non più rapido consumatore d’arte soddisfatto – forse nemmeno sufficientemente – della visione contemplativa e retinica.
In virtù dell’universalità si può affermare che l’arte non è solo un mero gioco formale ma tende a configurarsi come una rappresentazione dell’essenza delle cose, divenendo un’attività dotata di una propria funzione conoscitiva.
Il mondo sensibile non è solo apparenza ma realtà che può essere oggetto di sapere e, quando si coglie la forma, si prova piacere e si ottiene conoscenza: la sensibilità, che produce il piacere, non è disgiunta dall’intelletto, che ha il compito di percepire la forma.
Per esempio Aristotele reputava la bellezza sinonimo di adeguatezza alla forma: stando al suo pensiero infatti una cosa è bella quando realizza pienamente il suo scopo, che coincide con la sua forma, e l’arte, una delle virtù dianoetiche, cioè quelle proprie dell’anima razionale, è la capacità accompagnata da ragione di produrre un qualche oggetto rispondente a questo requisito.
Ascoltare i racconti e le esperienze di esperti del settore calati così profondamente nelle tematiche dell’urgenza dell’accessibilità dell’arte mi ha fatto comprendere come per tutti, e non solo per coloro che hanno cecità, minoranze visive e/o uditive, sia necessario toccare per rendere completa la conoscenza di ciò che ci esiste intorno, così com’è vero, prendendo in prestito una frase di Italo Calvino, che scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi.
Il grande narratore del Novecento ha più volte descritto la perdita dell’uso cosciente dei cinque sensi nell’uomo contemporaneo, di cui sottolineava anche l’approssimativa sensibilità tattile.
Anche Calvino dichiarò che per ognuno dei sensi doveva fare uno sforzo che gli permettesse di padroneggiare una gamma di sensazioni e sfumature: anch’io, come lui, volevo cambiare me stessa e capire quanto abbiamo effettivamente visto, quanto abbiamo aiutato il mondo a vedersi, a esserci.
L’arte crea e trasmette visività e questa deve essere resa accessibile a tutti.
E se i segni nascosti sono da cercare, come i funghi diceva Calvino, il mondo non è un panopticon ma un pancripticon e dobbiamo diversificare le proposte, trovare nuove vie tralasciando il pre-tracciato a vantaggio del pensiero accessibile, alimentando la predisposizione plurimediale con la consapevolezza che «toccare è conoscere, conoscere è rappresentare, rappresentare è comunicare».
Dall’artista sarda Maria Lai il viaggio veniva vissuto come metafora della ricerca e le sue Geografie evocano tutt’oggi la possibilità di congiunzione tra pianeti lontani e invitano a scoprire luoghi inesplorati: lei stessa affermò di cercare spazi cosmici sempre molto tattili e ad inventarne di nuovi.
Se «creare un’emozione è mettere insieme tutte queste tattilità diverse», continuiamo allora a viaggiare e impariamo a vedere con-tatto.