di Andrea Pinotti.
Nel dibattito contemporaneo che si è sviluppato in questi ultimi decenni intorno all’esperienza dell’immagine in generale e dell’immagine artistica in particolare, un ruolo rilevante è giocato dalla nozione di “vedere-in” (seeing-in). L’ha introdotta il filosofo britannico Richard Wollheim nell’ormai lontano 1980, e da allora questo concetto non ha cessato di stimolare la discussione fra gli estetologi.
Wollheim dialogava a distanza con Ludwig Wittgenstein, che una trentina d’anni prima si era occupato del fenomeno delle figure ambigue in uno dei libri di filosofia più influenti del Novecento: le Ricerche filosofiche. Lo aveva colpito soprattutto la figura dell’anatra/coniglio, che aveva fatto la sua comparsa in sordina nel 1892 su una pagina della rivista illustrata FliegendeBlätter, per poi diventare uno dei casi più celebri della psicologia della percezione:
Apro gli occhi su questa immagine. Vedo il profilo di un coniglio (Wittgenstein gli preferisce la lepre) che guarda verso destra, le orecchie belle tese all’indietro verso sinistra. Dopo qualche secondo, come se da qualche parte scattasse un misterioso interruttore, si verifica uno strano cambiamento: le orecchie del coniglio diventano il becco dell’anatra, il suo muso si trasforma nella parte posteriore del capo; solo l’occhio rimane saldo al suo posto, ma il suo sguardo è ora rivolto a sinistra (non necessariamente in quest’ordine: posso prima cogliere l’anatra, e poi il coniglio).
È un’immagine statica, non siamo al cinema. Nulla cambia nella configurazione materiale dell’immagine: i tratti che compongono la figura restano gli stessi. E quindi lo stimolo percettivo che sollecita il senso della vista non subisce alcuna modificazione. Eppure tutto cambia a livello del senso della percezione stessa: ora vedo la figura come anatra, ora come coniglio. “Vedere-come” (seeing-as) è la formula adottata dal filosofo viennese per caratterizzare questo curioso fenomeno. Si tratta indubbiamente di un’esperienza degna della massima attenzione. Un’esperienza che tuttavia – rileva Wollheim – non riesce a render conto di un fattore cruciale nel nostro modo di rapportarci alle immagini: il supporto, nel quale l’immagine appare, viene infatti trascurato dal “vedere-come”, che si concentra sulla figura che si manifesta (l’anatra piuttosto che il coniglio), senza preoccuparsi del mezzo che permette all’uno o all’altro animale di apparire. Comprendiamo così il senso della correzione proposta da Wollheim: occorre considerare non solo quel che si vede, ma anche ciò che consente a quel che vediamo di manifestarsi. È questo il motivo che giustifica lo slittamento della preposizione: dal vedere-come al vedere-in.
Il vedere-in presuppone la possibilità di un andirivieni: non però tra due sensi della medesima figura (come nel caso del vedere-come un’anatra o -come un coniglio), bensì tra la figura e il suo proprio medium. Di fronte a un’immagine, infatti, possiamo sempre focalizzare l’attenzione ora sull’immagine stessa, ora sul supporto mediale che ce la offre. Al cospetto di una tavola o di una tela dipinta o di una fotografia, posso decidere di distogliere lo sguardo dall’immagine per concentrarmi sul suo sostrato materiale (le crepe del legno che fessurano la superficie dipinta, la texture della tela che sostiene i pigmenti, la grana della carta fotografica).
Anche le immagini in movimento presentano naturalmente la stessa combinazione di figura e supporto: ce ne rendiamo conto quando, mentre siamo assorbiti dalla visione del film in un cinema all’aperto, improvvisamente la brezza estiva flette il telo e deforma i volti degli attori; o quando, viaggiando in treno guardiamo un video sul cellulare, e un raggio di sole di colpo illumina il vetro, costringendoci a cambiare angolazione per poter continuare a vedere il video e non la nostra stessa faccia che vi si riflette sopra.
Nella nostra tradizione culturale, come fruitori di immagini e soprattutto di immagini artistiche, non abbiamo accesso a questo sostrato materiale se non appunto tramite una particolare modulazione del vedere-in, che ci consente di mettere a tema il supporto. Quanto al toccarlo direttamente, è operazione esclusivamente riservata ai restauratori, il cui delicato compito è proprio quello di prendersi amorevole cura di legno, tela, carta. La nascita nel Settecento dell’istituzione “museo”, contemporanea al configurarsi dell’estetica come disciplina autonoma, ha privilegiato il senso della vista (“Vedere ma non toccare”) come canale sensoriale correlato all’opera offerta alla pura contemplazione senza alcuna finalità pratica. Nell’onda lunga dell’influente dottrina kantiana, l’atteggiamento estetico si appaga dell’oggetto come pura immagine, a prescindere dalla sua effettiva esistenza.
È in tale regime – a tutt’oggi dominante – che si gioca la sfida dei musei tattili: dischiudere all’esperienza dello spettatore quella palpazione diretta del supporto abitualmente riservata ai professionisti del restauro. E dischiuderla ai fini non di un intento riparativo o conservativo, ma autenticamente estetico. Nel pieno riconoscimento del senso profondo del termine “estetica”, custodito dalla sua origine etimologica di aisthesis, conoscenza sensibile, corporea nel suo insieme, e non solo ottica. Aprirsi ad apprezzare il medium nella sua irriducibile materialità che ospita e rende manifesta la figura: toccare-in.