di Silvana Sperati, scrittrice, ricercatrice, Presidente Associazione Bruno Munari.
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Ogni volta che scrivo di Bruno Munari, e più precisamente nel momento stesso in cui raccolgo le idee per poterlo fare, è come se quella parte della mia esperienza personale che ho condiviso, l’artista e tutto quello che ho studiato e sperimentato in seguito diventassero una cosa sola. Questa contaminazione stimola una continua riflessione, che evolve e si arricchisce piuttosto che tornare su sè stessa sommando pensieri: soprattutto, le esperienze e le considerazioni che ne derivano vengono contestualizzate rispetto al tempo che si sta attraversando. Un processo tipico di Munari, che con la sua straordinaria capacità di semplificare e di andare all’essenza dei processi ha sempre offerto, e continua a farlo, suggerimenti e stimoli di carattere universale, che attraversano il tempo separando quello che è storico e circostanziale da quello che è universale e sempre valido.
Anche per questo ci si rivolge oggi con ancora maggiore curiosità e interesse al processo artistico e umano di questo Maestro dell’arte e del pensiero che ha saputo attraversare tutto il ‘900 e mostrare un costante e articolato interesse verso differenti linguaggi artistici ed espressivi: fu infatti pittore, grafico, designer, scultore, scrittore, filosofo, poeta e infine didatta, come lui stesso amava definirsi.
Abbiamo evidentemente a che fare con una personalità dai tratti leonardeschi che mai manifesta iperattività o frammentarietà nel suo fare, ma piuttosto evidenzia un fluire sempre armonico e consapevole, orientato dalla direzione verso la quale rivolge il suo interesse e la sua curiosità di sapere.
Dobbiamo prestare attenzione, parlando di Bruno, a non forzare sulle priorità tra l’azione concreta del fare e quella ritenuta più intellettuale del pensare perché in lui i due aspetti dialogano costantemente, tanto che si potrebbe dire che Munari “pensa facendo”, in una dimensione di personale e costante “presenza in essere” che coinvolge tutti gli aspetti della persona e, conseguentemente, del progetto che esprime.
In merito alla necessità di perseguire un approccio globale ai differenti problemi, se ne possono trovare chiare indicazioni nel testo Fantasia (Universale Laterza) dove, parlando di design, ci invitava ad utilizzare creatività, fantasia ed invenzione in modo globale, considerando nella progettazione tutti gli aspetti di un problema: da quello economico a quello sociale, da quello psicologico a quello legato all’immagine, e via dicendo.
Se siamo convinti che la particolare modalità di accesso alle conoscenze, e la conseguente capacità di utilizzo delle informazioni nell’ambito di nuove relazioni funzionali ai progetti, sia uno degli aspetti che meglio caratterizza questo artista così iconico, evidentemente riconosciamo il rapporto che si manifesta tra l’opera e il processo creativo e artistico che l’ha generata. Permettetemi di dire che l’opera risulta quasi la messa in scena del processo creativo che l’ha immaginata e poi realizzata. Forse potremmo invitare i visitatori di ogni esposizione dedicata a Munari a utilizzare questa strategia d’osservazione: cogliere i processi, le ricerche e l’accurata sperimentazione che precedono la realizzazione di ogni opera. Una sorta di gioco curioso volto a scoprire “cosa sta dietro all’opera”. Permetterebbe di comprende meglio questo artista e di ricostruire, a posteriori e da parte di noi fruitori, i processi generativi che sono alla base del suo progettare. Aiuterebbe soprattutto i giovani a imparare da lui: visti i risultati raggiunti da questo Maestro, che così tanto ha saputo ispirare chi è venuto dopo, acquisirebbero moltissimo in termini di scoperta e crescita.
Ma quali sono le caratteristiche più salienti della ricerca munariana?
Analizzando la molteplicità della sua produzione, che sempre produce in noi stupore per un fare artistico così mirabolante e abbondante, gli studiosi e i biografi mettono in luce vari aspetti.
Io personalmente pongo l’accento su quelli che ritengo manifestino il tratto caratteristico e più intimo dell’artista e dell’uomo, che si disvelava con le parole e con le azioni in un rimando coerente fra arte e sfera privata che tutto era tranne che ostentativo, anzi, spontaneità e discrezione erano sempre una cifra naturale.
Non ho, insomma, conosciuto un Munari privato e uno pubblico. Bruno aveva un carattere e un modo di fare ed esprimersi che si manifestava con disarmante naturalezza nel suo complessivo vivere quotidiano, quando si affrontava qualsiasi argomento di cui capitava di parlare e anche nei suoi momenti pubblici. Lo stile di Munari era unico e anche per questo risultava facilmente riconoscibile.
Si creava intorno a lui un’atmosfera d’attesa e di gioioso interesse che muoveva empatia nei presenti. Un approccio identico a quello che trasferiva nei libri, nelle sue molteplici attività o nelle tante conferenze e lezioni che tenne, sempre spinto dal desiderio di condividere i risultati raggiunti e fornire così, a quante più persone possibile, precise chiavi di accesso al fatto artistico.
Munari riusciva a essere chiaro nell’affrontare ogni argomento ma anche capace di “spiazzare” l’interlocutore facendo intravedere aspetti e possibilità che ai più passavano inosservate. Mai presuntuoso nell’esprimere le proprie considerazioni, sempre mosso dal desiderio di farsi capire, di aiutare gli altri a capire.
La sua semplicità non era mai banale, ma densa ed essenziale, e per questo così efficace.
Il motore di questo suo andare verso le cose, di coinvolgersi e interessarsi dei fenomeni e di fatti così diversi, credo venisse da lontano: forse da quel gioco-laboratorio che così tanto lo divertì da bambino in Badia Polesine, di cui parlò e scrisse spesso. Lo possiamo immaginare incantato nell’osservare la caduta dei semi di acero e nel provare a replicare quanto vedeva lanciando nuovamente in aria manciate di semi raccolti da terra. Ma perché cadono in quel modo? Sono sicura che se lo sarà chiesto, come si sarà domandato se sarebbe stato possibile replicarlo. Lo avrebbe fatto da adulto sviluppando una precisa ricerca su differenti tipologie e misure di carta, arrivando a scoprire che un “rettangolino di carta di circa cinque millimetri per cinque centimetri, leggermente incurvato, se lasciato andare nell’aria comincia a girare e fa una forma illusoria come di caramella… e non cade subito, ma qualche volta vola più in alto di chi lo ha lanciato permettendo così di vedere le correnti di aria calda o il vento che altrimenti non si vedrebbe…” (Munari, giochi e grafica, edito in occasione della mostra al Castello di Soncino, 1990)
In lui la curiosità di sapere non si manifestò in modo statico. Munari tocca, prova, osserva, riprova, crea nuove relazioni tra gli oggetti e i materiali. Arriva a incuriosirsi per il suono prodotto da una goccia che cade da un rubinetto rotto, poiché trova il suono non monotono. Ed eccolo pronto a scoprire e a descrivere le variabili possibili del fenomeno, ponendo sotto la goccia un foglio di carta spiegazzato piuttosto che una padella rovesciata o un vasetto di marmellata vuoto. Cosa succederà? Il suono rimarrà lo stesso o cambierà? Tutto è da scoprire, l’azione sostiene un gioco che diventa vera e propria sperimentazione.
L’artista Munari non considererà queste sue prime ricerche come un semplice retaggio del passato o un inutile baloccarsi infantile, ma saprà riconoscere in esse la forza propulsiva dello “spirito dell’infanzia”, tanto da consigliare a tutti noi di conservare questo spirito per tutta la vita: è attraverso di esso che si esprime la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare.
Il fatto straordinario è che Bruno mantenne realmente intatto questo atteggiamento per tutta la vita: questo forse è stato l’elisir che lo ha reso un uomo capace di entrare nel suo tempo ma anche di traguardarlo, facendo sua la tensione più profonda e pura dell’uomo: quella di conoscere e di esprimersi attraverso le arti.
Credo che oggi sia proprio questa la lezione di Munari: acquisire un atteggiamento di curiosa apertura verso ogni fenomeno, ogni elemento che si manifesta alla nostra attenzione; diventare capaci d’interrogarlo senza dare nulla per scontato.
Quanti tipi di nuvole ci sono nel cielo? Secondo quale regola ramificano gli alberi? A cosa assomiglia l’organizzazione interna di un’arancia? Uno spazzolino da denti, se intinto nel colore, che tipo di segni può lasciare su un foglio di carta? Che forma potrebbe avere una “scrittura illeggibile” di un popolo sconosciuto? Questo e tanto altro costituisce il meraviglioso mondo di Bruno: un mondo vivace, interessante, talvolta strabiliante, fatto di continue scoperte e della gioia di condividerle. Un mondo democratico dove non c’è bisogno di primeggiare gli uni sugli altri, in cui si comprende l’importanza di collaborare per un progetto comune.
Con questo singolare e disincantato approccio era prevedibile che sarebbe riuscito a ritrovare, in vari momenti della sua carriera artistica, la via che lo avrebbe riportato ai bambini, alle preziose memorie generative della sua infanzia. Questo viaggio non fu mai un semplice andare a ritroso, un rammentare un’epoca felice; al contrario fu sempre sostenuto dalla chiara consapevolezza del valore dell’azione e della sperimentazione all’interno di un contesto di piacevole gioco, quella stessa modalità ludica, spensierata, che tutti proviamo nei nostri primi anni e che può diventare, in alcuni, un’abitudine al fare ispirato e progettuale, in tutte le età della vita.
Per Bruno l’incontro fra l’infanzia e la sperimentazione avvenne attraverso la progettazione di una collezione di libri, conosciuti oggi come “libri del 45”. Li realizzerà per suo figlio Alberto, quando questo aveva cinque anni, perché non trovava nulla di adatto al suo bambino. Sarà un progetto che ribalterà completamente l’approccio ai libri per bambini, mostrando una strada che poi molti percorreranno.
L’attenzione ai bambini in crescita continuerà con un sodalizio che lo vede operativo nel progetto di offrire nuovi strumenti per una rinnovata scuola, in una felice collaborazione con il direttore didattico Giovanni Belgrano; insieme realizzeranno una serie di “scatole gioco” fra cui la più conosciuta è probabilmente quella chiamata “Più e meno”. La scatola presenta una serie di tessere trasparenti, ognuna con un piccolo disegno: fili d’erba, un omino che passa in bicicletta, foglie ingiallite, un piccolo tronco spoglio, un volo di uccellini…. Sovrapposte le une sulle altre, o sottratte, queste tessere danno vita a immagini e storie sempre differenti.
Ma sarà nel 1977 con l’esperienza dei laboratori Giocare con l’arte, ospitati alla Pinacoteca di Brera in Milano, che si potranno delineare gli elementi fondanti del suo principale progetto didattico, volto a stimolare i bambini verso una prima conoscenza e fruizione delle differenti tecniche artistiche. Munari suggerì un metodo che partiva dall’esperienza diretta del bambino e dalla sperimentazione delle principali tecniche utilizzate dagli artisti nelle varie epoche e nelle differenti culture. I bambini non venivano invitati a copiare in nessun modo le opere dei Maestri perché questo non gli avrebbe permesso d’imparare nulla oltre alla frustrazione derivata dall’incapacità di replicare i capolavori. Ai bambini veniva invece offerta la possibilità di sperimentare, in assoluta libertà, le stesse tecniche scelte da ogni artista. Segni, colore, forme, frottage, divisionismo, prospettiva cromatica, materiali, trasformazione delle forme naturali e tanto altro. L’esperienza ebbe un grande successo non solo in Italia: mostrò una nuova modalità di promuovere la didattica dell’arte ai più piccoli. E in tutti i laboratori, da allora in poi, si dirà ai bambini come possono fare, ma non cosa fare.
Credo di non essere smentita se affermo che ancora oggi la proposta munariana è fonte d’ispirazione per le sezioni didattiche di molti musei. Quel progetto, nato a partire da una richiesta della Pinacoteca di Brera, rese Munari ancora più consapevole della necessità di educare le generazioni future all’arte e alla promozione del pensiero creativo, affinché si formassero individui capaci di risolvere i problemi che si potevano presentare nel corso della vita e non rimanessero dei semplici “ripetitori di codici”. Insomma una creatività per tutti, perché tutti potessero crescere individui liberi.
In un’intervista del 1996 di Luciano Maruzzi l’artista espresse questo pensiero: “Il famoso psicologo Piaget ha detto che non si può cambiare la mente di un adulto. Io ho tenuto diversi incontri e conferenze a livello universitario, in scuole medie, in scuole elementari e adesso, finalmente, sono arrivato alla scuola materna. È lì che bisogna operare, altrimenti i bambini sono già condizionati a un pensiero distorto, a un pensiero chiuso; sono soffocati nelle loro possibilità creative e fantastiche. Quindi, se si vuole cambiare la società, è proprio lì che si deve operare per sperare in un mondo migliore tra qualche generazione”. Si tratta di una riflessione che ci mette in contatto con i desiderata (forse la parola corretta è desideri?) e con la stessa eredità culturale di Munari, ovvero i laboratori. Personalmente, come ho espresso più volte, per un artista che ha considerato la sperimentazione continua un tratto essenziale del suo fare artistico, il laboratorio è proprio il luogo che meglio esprime questo valore nella massima concretezza: per questo lo possiamo considerare opera a tutti gli effetti. Un’opera dinamica, in continuo divenire, capace di accogliere nuovi materiali, nuove tecniche, nuovi bisogni per offrire risposte sempre interessanti e generative, capaci di promuovere importanti contenuti e abilità utili alla crescita dei bambini.
Nelle parole e nelle azioni di Munari negli ultimi anni s’intuisce come l’artista abbia saputo trovare proprio nel suo laboratorio una fucina permanente di stupore, creatività e processi generativi. Per lui, che sempre ha riconosciuto nella curiosità e nella sperimentazione i valori imprescindibili del fare e del fare arte, il raggiungimento di tale consapevolezza divenne una nuova epifania, capace di rallegrarlo perché fu immediatamente consapevole della potenza del suo messaggio. Un messaggio che ha offerto prima di tutto ai bambini – mai considerati alla stregua di vasi da riempire ma come persone che possono avere straordinari accessi alla conoscenza. Per gli adulti, ci dirà, è troppo difficile poiché hanno troppi preconcetti.
In una delle mie ultime interviste ricordo che alla domanda “Munari per chi?” lui mi rispose “Beh, per tutti”. Parole queste che hanno profondamente ispirato la mia vita e la mia professione, stimolando in me un’operatività costante volta alla divulgazione dei principi di questo straordinario artista.