Andare al Museo per eseguire l’opera d’arte

di Marcello La Matina.

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Quando i Greci antichi volevano spiegare la loro vita artistica, ricorrevano a una immagine mitologica: le Muse. Queste nove sorelle, figlie di Mnemosine, erano dee che presiedevano alle diverse espressioni artistiche: Calliope era la musa del canto epico e Tersicore della danza, così come Euterpe era la dea della lirica e Melpomene quella della tragedia. In verità, il campo artistico dei Greci era più ampio del nostro; comprendeva, per esempio, la storia e la geometria, che noi collochiamo tra le scienze. Ciò si deve al fatto che, ad onta dell’argomento, anche il sapere geometrico e quello storico erano materia del canto o espressione di un sovrano equilibrio formale fra grandezze che parlavano della bellezza del mondo, ossia di quel che essi chiamavano il Kòsmos. Mai per i Greci l’arte si definì a partire dal contenuto, dall’argomento, come avviene presso i moderni. Essa era infatti una costellazione di fenomeni legati al canto, alla voce, alla bellezza e all’armonia.

Le Muse avevano insegnato agli uomini il canto. E non v’era poeta che non iniziasse a cantare rendendo grazie alle Muse – o genericamente alla dea – per avere ricevuto sia il canto sia la materia del canto stesso. Era infatti la Musa che cantava attraverso la voce del poeta o del danzatore. Non sappiamo quando precisamente l’uomo abbia imparato a cantare, ma di certo ciò è accaduto prima che la scrittura insegnasse a fissare su materiali durevoli i caratteri del suono e della voce. Prima dell’invenzione della scrittura, i poeti si tramandavano il canto e, con esso, anche la conoscenza. I canti, specie quelli epici, erano la loro enciclopedia tribale. I poemi di Omero, “Iliade” e “Odissea”, non raccontano soltanto le vicende di Achille e di Odisseo, ma assemblano insieme descrizioni di oggetti e di attività che l’uomo arcaico imparava dalla tradizione più che dall’esperienza. Anche quei saperi che i Greci avevano appreso da altre civiltà (come la geometria, che essi trassero dagli Egizi) finivano con l’essere attribuite a
una Musa. Urania era la dea della geometria e dell’astronomia.

Le arti, dunque, erano modi di contemplazione e di ricreazione della bellezza che i Greci percepivano nel mondo esterno e che assorbivano come una preziosa bevanda divina capace di ristorare e nutrire il loro mondo interiore.

Noi moderni siamo soliti suddividere le arti in due classi: le arti del tempo e quelle dello spazio. Sono arti del tempo la musica, la poesia, la danza; arti dello spazio l’architettura, la pittura o la scultura. Un brano musicale o un balletto posseggono una durata, senza la quale non possono essere costruiti come opere d’arte. Al contrario, una cattedrale gotica o una statua di Fidia sembrano starci di fronte immobili e immutabili, come cose estese che in nulla il tempo modifica. Tuttavia, come ha dimostrato uno studioso di nome Étienne Souriau, questa distinzione non è corretta. Prendiamo il Partenone. Esso è certamente un corpo esteso nello spazio. E però, perché sia un’opera d’arte, è necessario che uno spettatore lo contempli, lo “circumnavighi”, lo frequenti per un certo lasso di tempo. Lo stesso si potrebbe dire di una cattedrale gotica: perché venga riconosciuta come opera architettonica, occorre che il suo visitatore vi si addentri, la percorra, la osservi per un certo tempo.

Nessun oggetto nello spazio viene conosciuto in un batter d’occhio e nessun oggetto può essere un’opera d’arte se non viene letto, contemplato. Accade pertanto al dipinto o alla scultura quello stesso che accade a un brano di poesia o di musica: essi vanno eseguiti nel tempo, abbisognano di un certo tempo per essere goduti, ascoltati, delibati e giudicati.

Souriau considera il tempo di contemplazione come una sorta di «tempo di esecuzione». Una cattedrale, ma anche un parco o un giardino, non sono ciascuna espressione di una “arte dello spazio”, bensì oggetti artistici intrisi di tempo. Come nella musica, così anche nelle “plastic arts” esistono diversi modi di darsi del tempo nell’opera. Questo tempo, però, non è un tempo meramente fisico e neppure un tempo psicologico, ma un tempo intrinseco alla costituzione estetica dell’oggetto o dell’evento artistico.

Prendiamo una scultura dell’arte greca, per esempio la “Nike di Samotracia”. Essa, dice Souriau, è dotata di una intrinseca vita ritmica: «è circondata dal mare, dal vento, dalle onde spezzate ritmicamente dalla scia di un’imbarcazione». Con parole certo imprecise, diremmo che essa fuoriesce dai confini della materia per suggerire una dinamica che può essere colta dall’osservatore solo se questi ingloba sé stesso nel movimento ritmico dell’oggetto della sua contemplazione. Lo scultore classico è riuscito a imprimere nel blocco di marmo un potere di evocazione dello spazio e del tempo circostanti.

Talché, contemplare l’oggetto significa entrare in relazione con il movimento ritmico che ne costituisce la testura. Non si può avere opera senza partecipare del suo tempo e non si può partecipare di questo tempo senza eseguire l’opera plastica senza che il nostro presente psicologico sia in qualche modo inglobato nel tempo evocato dall’opera. L’esecuzione plastica realizza un rapporto tra il tempo del soggetto e il tempo dell’oggetto. L’arte è questa relazione che ha bensì bisogno dello spazio, ma che non si esaurisce nello spazio.

Vediamo allora che cosa possa e debba essere un Museo. Un Museo è principalmente uno spazio edificato perché consenta la trasformazione di questa relazione Soggetto/Oggetto. Quando il visitatore entra nello spazio di un’opera museale, esso è soltanto presente nello spazio degli oggetti, ma non appena comincia a “circumnavigare” l’opera, ecco che può essere catturato nel tempo di questa, respirando al ritmo dell’opera stessa. Egli utilizzerà tutte le strategie sensoriali in suo possesso per “eseguire” plasticamente l’opera d’arte. E come un musicista legge uno spartito convertendo in suono i segni iscritti, così il nostro visitatore potrà tradurre nella sua grammatica sensoriale i tratti dell’oggetto che sta “eseguendo” a mo’ di partitura.

L’opera d’arte, in sostanza, non è un oggetto che noi troviamo già bell’e fatto, non è qualcosa che si dia come un manufatto pronto e dato una volta per tutte.

Piuttosto, essa è un evento che noi siamo chiamati a ricreare ogni volta e che ogni volta può darsi in forme nuove, stimolando nuova conoscenza e arricchendosi dell’esperienza che il visitatore riesce a riattivare nel suo percorso sensoriale di lettura ed esecuzione. E non serve che questo percorso sia necessariamente visivo. L’opera d’arte si rivela come tale se riesce a trasmettere un po’ della sua organizzazione formale attraverso una griglia multisensoriale. I sensi dell’opera parlano ai sensi del visitatore e i linguaggi dell’una si traducono nei linguaggi dell’altro.

L’arte è una continua trasposizione nella quale i sensi sono funzione del senso e della sua organizzazione espressiva. Il Museo è un immenso vocabolario pieno di pagine che si riempiono e si riscrivono ad ogni visita. E ciascuno di noi è come un esecutore chiamato a partecipare alla continua creazione del mondo operata dall’arte delle Muse.