Redazionale
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L’uscita di un libro è sempre importante, ma questo di Luigi Manconi, lo è in modo particolare.
Racconta i suoi ultimi 15 anni in modo acuto, descrivendo tutte le fasi che lo hanno portato a dover accettare una nuova realtà: una cecità totale che lo ha reso immutabilmente diverso. Da non perdere quindi questa quasi “autobiografia” di rara sottigliezza, perché parla di cose che riguardano ogni età: l’identità, i limiti imposti dal destino, le relazioni con gli altri. Lo stile è così intelligente e poetico che lascia una vibrazione come di un verso musicale che risuona a lungo. Se non avesse già scritto decine di libri si potrebbe affermare che è nato un grande scrittore, a 76 anni.
Uscito per l’Editore Garzanti lo scorso settembre, “La scomparsa dei colori” è un vero e proprio romanzo; non un saggio sulla cecità.
Diventare cieco è un’esperienza drammatica. Significa il consumarsi dei rapporti con il mondo, con le sue misure e i suoi colori, con le sue promesse e le sue sorprese. E significa l’affaticarsi delle relazioni con gli altri e con le cose: le carezze che non giungono a segno e i bicchieri che cadono, l’impossibilità di
scrivere una dedica o quella di decifrare un volto.
Nel corso di oltre quindici anni, Luigi Manconi – sociologo e militante politico – è passato da una forte miopia all’ipovisione, alla cecità parziale e infine a quella totale. La sua è dunque la storia di una perdita e di una lenta discesa in un buio che non è tuttavia “un calamaio di compatta cupezza”, perché “la cecità non è nera. È lattiginosa, a tratti caliginosa. E, talvolta, rivela sprazzi perfino luminescenti”.
Questo libro è la testimonianza di un percorso di coscienza e conoscenza e il racconto di un mondo nuovo pieno di echi: i suoni di una partita di basket, le note di una canzone, la voce che detta un testo o che dà un comando a un’assistente vocale o quella dell’attore che legge un audiolibro. E le sensazioni tattili: il calore del sole sulla pelle, mani che sfiorano i muri per orientarsi, prese incerte sugli oggetti, tibie che urtano contro gli spigoli. E soprattutto i ricordi, perché alla perdita della vista si accompagnano le peripezie della memoria: le premonizioni dell’adolescenza e i volti che rimangono uguali a com’erano trent’anni fa.
E ancora: cosa vede chi non vede? Nella narrazione di Manconi c’è sia la lusinga della disperazione (“il problema di buttarmi o no dalla finestra”) sia una costante vena di umorismo, ironia e autoironia. C’è l’accettazione dei limiti imposti dal destino e un elogio della lotta: l’antidoto alla cecità, “che è innanzitutto immobilità”, è proprio la lotta, “il movimento che raccoglie e mobilita energie, che produce conoscenza, che persegue mete, che esercita intelligenza”.
Nessuno, non conoscendolo, nota oggi che Manconi non vede. Non porta occhiali, o bastone e non tiene chiuse le palpebre. Certamente è per lo più sempre accompagnato, ma sembra che sia lui a guidare l’altro toccandolo leggermente per il gomito. È sempre lui, quello di prima? L’intellettuale, scrittore, giornalista, difensore dei diritti (memorabili le battaglie per i carcerati fatte con Pannella)? Certamente sì, anche nella fisicità; per buona parte sì! Sempre ancora molto bello, elegante e sobrio, simpatico (quando decide di esserlo) e soprattutto autoironico. Più di una stilettata per i cosiddetti normodotati, tra cui quell’insieme di comportamenti che scattano nei confronti di ogni disabile: pietismo, imbarazzo, insipienza, eccesso di cura. Fino a chiedere “Chi porta qui Luigi? Dove lo mettiamo?”.
Manconi infine ci regala una lezione politica contro quel paternalismo giuridico che continua a precludere, nel nostro paese, scelte legislative rispettose dell’autodeterminazione del malato, di cui si nega l’autonomia “Ovviamente, per il suo bene”.