Loreno Sguanci, scultore
Tratto da “L’arte a portata di mano. Verso un accesso ai Beni Culturali senza barriere”, Armando Editore.
Le mani comunicano, sentono e indagano il mondo per darci la possibilità di ricostruirne l’immagine, di rappresentarlo. Proiettandosi, tramite l’azione, sull’altro, sull’esterno, raccontano, nel momento in cui il differente è da noi incontrato, del nostro interesse, della nostra ricerca.
In poche parole le mani ci rappresentano in maniera ugualmente forte di quanto non rappresentino la realtà circostante.
Le mani, come strumento di conoscenza di noi e del mondo, condensano in esse memorie di sublimi incontri e sentimenti sublimati. Tant’è vero che le materie potrebbero essere adornate di infiniti aggettivi nati dal contatto, le tipologie potrebbero essere descritte parlando dei modi in cui le mani vivono nello spazio, i ricordi spesso veicolano dei contenuti affettivi di cui la mano è l’emblema.
Le mani evocano i miei affetti, parlano di interpretazioni del mondo, sentono il mondo e modellano il sentimento.
Su ognuna di queste tracce vorrei spendere delle riflessioni.
Le mani evocano i miei affetti
Ricordo le mani di mia madre quando ancora giovane ricamava e quelle di mio padre, forti ed agili, capaci di realizzare mille cose e rivivo le emozioni di un’epoca calda e serena della mia vita.
Ricordo gesti che raccontano l’affettività vissuta in famiglia, che rievocano l’educazione semplice e genuina con la quale sono cresciuto. A tal proposito la memoria corre alle mani di mio padre, pesanti sulla copertina del testo della Divina Commedia illustrata da Dorè, che divenivano leggere ed armoniche nel seguire la voce durante la lettura delle terzine del poeta.
Forte è il senso di rispetto ed autorità che attribuisco a mio padre e a quel gesto che insieme al libro apriva il mio pensiero e il mio sentimento.
Poi è giunta la guerra che violentemente ha interrotto la serenità della mia fanciullezza: le mani portavano le tracce del difficile e faticoso lavoro nei campi, parlavano di vite costrette ad abbandonare l’esistenza cittadina così rassicurante, dell’ansia di tutto un periodo storico.
Ho incontrato le mani indurite dei contadini, nodose per il lavoro estenuante nei campi, ma capaci di trasformare la natura, di curarla e trarne i frutti.
Esse rievocano quelle dipinte da Van Gogh nella penombra dei quadri sui Mangiatori di Patate.
Anche le mie mani vivono di memorie e proiezioni: ad esse ho affidato il compito di parlare di me. Le osservo e mi rendo conto che per loro tramite posso raccontare della mia mente, del mio cuore e dei miei occhi. Infatti le mani sono per me strumenti sensibili che generano emozioni, pensieri e riportano a memoria dal profondo del mio essere.
Un lungo lavoro, disciplinato ed attento, le ha rese capaci di ascoltare e di ripetere le conoscenze apprese in automatismi slegati dai percorsi della logica.
In virtù del fatto che le mani possiedono un loro primitivo codice, credo che sia difficile parlarne in quanto il linguaggio stratifica sul loro lavoro una capacità interpretativa di differente matrice.
Con le mie parole spero, quantomeno, di suggerire dei flash emotivi e significativi che indichino cose, del mio mondo, che le mani rappresentano.
Le mani nella storia dell’arte
È un luogo comune dire che realizzare le mani in pittura e in scultura sia cosa assai difficile, ma, come i proverbi, anche i contenuti comunemente noti trasmettono frammenti di verità.
Le mani si compongono di molteplici elementi plastici che assumono posizioni continuamente diverse, creando motivi compositivi sempre nuovi.
Leonardo, nei suoi diagrammi, annota come il centro della circonferenza che irradia nello spazio infiniti raggi suggerisca il movimento del polso dal quale originano infinite posture.
La luce complica con riverberi mutevoli i volumi, il carattere scorre attraverso le nervature e la collocazione spaziale della mano, grazie al combinarsi di queste difficoltà risolte dall’artista, descrive un’azione.
La mano è il fenomeno e il fattuale da osservare, da comprendere e da risolvere in una formula che ne diviene icona. Ma nella storia dell’arte quante stupefacenti icone possiamo incontrare! Quante epoche si sono descritte descrivendo le mani!
In tal senso la mano, dopo essere stata il paradigma dell’individuo, diviene paradigma di una collettività.
L’’idea più forte del senso della presenza dell’uomo come agente che trasforma e incide la realtà, è data dalle pitture rupestri primitive. L’uomo si riconosce in ciò che gli permette di cambiare la sua condizione e lascia la sua impronta per testimoniare l’appartenenza ad un gruppo ed a un luogo. La caverna è il posto in cui trovare rifugio, in cui tracciare storie di caccia, in cui affrontare le energie di una natura sentita e non compresa.
La volontà diviene strategia per catturare lo spirito selvaggio dell’animale, il graffito diviene strumento di conoscenza per individuarne i punti vulnerabili.
La mano riassume in sé il senso dell’azione. La ciotola, la freccia di selce, l’animale graffiato sulla parete evocano mani dure, ma già ricche di conoscenze, di capacità tecniche e di memoria nonché di sensibilità per dare risposte tangibili all’immaginazione percepita come strumento essenziale per risolvere i forti bisogni dell’uomo.
Di ben diversa natura è la mano delle rappresentazioni egizie: essa racchiude e sintetizza la forza e la chiarezza della visione di un ordine superiore che dall’alto della piramide dei valori ridiscende all’uomo.
La mano veicola il linguaggio di una trascendenza.
Nella Grecia il dettaglio della mano, come del resto tutta l’opera, è soggetta ad un’attenta analisi che, all’interno dell’idea di bellezza, dà misura alle proporzioni.
Contemporaneamente la fisicità viene connotata per rilevarne l’appartenenza all’atleta, alla Venere ed al filosofo. Essa racchiude la perfezione di un’umanità che può incarnarsi nell’eroico. L’uomo, che ha preso coscienza di sé, proietta la propria immagine verso l’alto.
Gli esempi che fornisce la storia dell’arte sono numerosi: si potrebbe parlare della ieraticità delle mani bizantine che riprendono su diverse basi un discorso di trascendenza perdendo, di conseguenza, l’esigenza di veicolare una descrizione che riporti il pensiero all’individuo terreno; del nuovo verismo giottesco che ricuce il rapporto tra umano e divino; dell’imponenza statuaria del primo Rinascimento che ripropone in simbiosi bellezza terrena e spiritualità.
Non vorrei continuare oltre su concetti già noti a tutti, tuttavia vorrei ribadire che se delle opere d’arte restassero solo i dettagli delle mani, questi rivelerebbero con chiarezza di vedere e di sentire il mondo in ogni epoca, e ritroveremmo, tramite essi, anche il senso dell’essere di ogni artista e la sua partecipata personalità.
Dopotutto chi può negare che il “generale” trattiene e comprende in sé ogni “particolare”?
Allo stesso tempo chi non percepisce che ogni individualità rimanda ad un sentimento universalmente vissuto?
Il lavoro delle mani
Abbiamo dunque osservato come le mani parlino dell’individuo e come comprendano in sé un sentimento che lo oltrepassa divenendo universale.
Abbiamo anche evidenziato come esse possiedano un loro codice in parte contenuto nel loro essere ed in parte strutturato dalle esperienze ripetute.
Attraverso l’esercizio giornaliero le mani trattengono la memoria di un mestiere che praticano in maniera spontanea ed automatica, in modo tale da rispondere agli impulsi che nascono dalla necessità, dall’urgenza, dal bisogno di esprimersi dell’artista.
Esse forgiano le immagini dando corpo, forma e colore alle intuizioni e, allo stesso tempo, le caratterizzano donandogli un senso di realtà.
La finzione, l’artificio diviene per la spontaneità con cui è originato, una presenza assolutamente naturale.
Alle mani è affidato il compito di rendere visibile e verosimile l’invisibile, ciò che è presente nell’io come sensazione.
La memoria di un mestiere permette all’artista di proiettarsi nel fare e di dare risposta concreta ai problemi tecnici nati dalle scelte formali operate.
Tuttavia il gesto ripetuto e anche la ripetizione del contatto con la materia lascia nella mano una sorta di coscienza della sua essenza. Il legno, la pietra, l’argilla, il bronzo comunicano, nel dialogo con le mani, le loro esigenze per essere lavorati in maniera ottimale ed in armonia con gli intenti dell’artista.
Il legno, ad esempio, rivela al contatto il senso e la direzione della propria crescita e le mani ricordano di aver già incontrato le sue venature e sanno come usare la sgorbia per accompagnare il movimento naturale del tronco o della tavola.
Il marmo, strutturato in stratificazioni, chiede alla mano di rispettare e di vedere la sua natura che viene riconosciuta perché già sentita infinite volte.
In tal modo le mani autonomamente veicolano informazioni preziosissime, permettendo di creare superfici che rispondono in maniera armonica al binomio vista-tatto.
Se la vista inganna e fraintende la forma (è l’arte che ha spesso giocato su tali illusioni), il tatto corregge l’errore integrando le informazioni: un finto marmo in materiale sintetico non passerebbe come reale all’esame del contatto.
Il perché sia importante che le mani ricordino il mestiere e la materia è stato ben spiegato da Picasso che sosteneva: “Mentre le mani fanno, io posso…”.
Ecco perché il pittore spagnolo affermava : “Io non cerco, trovo”.
Le mani modellano il sentimento
L’esasperato individualismo di Picasso rivela ai fruitori delle opere cosa in effetti egli trova: trova, giungendo a se stesso, la realtà del mondo: “Io non evoluziono, io sono”.
Guernica parla del suo “essere politico”, parla dei suoi sentimenti e della sua risposta ai fatti storici. Trova, in poche parole, il contatto genuino con se stesso che resta fortemente ancorato al senso reale della vita.
Allora le mani, proprio perché liberano la mente dell’artista, liberano il sentimento che viene tradotto in forma plastica, o meglio che trova nella materia una nuova fisicità.
Quando lavoro nello studio, quando scolpisco sento di seguire costantemente due binari paralleli: quello estetico formale che si proietta all’esterno e quello viscerale che modifica il mio essere, puntualizzandone delle inflessioni emotive.
Pertanto avverto, modellando l’opera, di modellare me stesso. Sento che le mani corrono e accarezzano le superfici permettendomi di aderire con il cuore a quei piani, a quei volumi, al segno inciso. Lavoro dunque, consapevole che, come la materia lascia la sua natura nel momento del contatto, io lascio nella forma l’impronta del mio sentimento nonché il riflesso della mia storia.
Questo sentimento diviene cosa, oggetto, nuova realtà da cui generare in soluzione di continuità nuove emozioni in attesa di essere concretizzate. Esse rispondono al “mio essere rinnovato” attraverso il fare.
In effetti “l’io sono” espresso tramite l’opera non significa altro che fermare in una realtà circoscritta un attimo di verità della propria persona senza dimenticare che, nel momento in cui tale affermazione è esplicitata, quella stessa realtà è stata modificata.
Non appena l’io si identifica nell’opera, l’io subisce una variazione al pari della realtà esterna e dell’individualità che incontrano e leggono la scultura.
La comunicazione del sentimento si espande a cerchi concentrici proprio come le onde fanno dopo il lancio di un sasso nello stagno e si infrangono sulle rive che delimitano un’epoca e che creano l’identità di una comunità.
Il punto di origine di un simile movimento (che in quanto tale è un cambiamento) è la forma oggettivata in opera d’arte e a me non resta che trattenerne la memoria guardandola e riguardandola, toccandone nuovamente i piani e le superfici.
Dirò di più: la scultura chiede di essere vista e toccata perché vuole che si giunga al punto della sua origine. Per conoscerla realmente bisogna sognare sulle asperità della sua pelle.
Il Museo Omero
Il Museo Omero accoglie la richiesta dell’opera scultorea e la pone anche a vantaggio di chi solo attraverso le mani ed il corpo può rendersi conto della realtà fisica e intellettuale.
L’opera, in effetti, si pone come elemento fisico muto ed, al pari di un volto, deve essere accarezzato per essere compreso. Essa, tramite la mano, torna verso l’uomo rivelandosi e ricomponendosi armonicamente nel suo essere.
In tal modo lo spirito dell’uomo, mosso da altre sollecitazioni, avverte nuove sensazioni, si avventura in riflessioni che lo aiutano a crescere nelle singole personalità.
La partecipata comprensione di chi fruisce la scultura provoca l’incontro di diverse interpretazioni che, nel confronto inevitabile, modellano un unico sentimento sociale.
Tale concetto era stato sottolineato in precedenza quando parlai del sasso lanciato in uno stagno le cui rive rappresentano i limiti temporali di un’epoca.
Tuttavia il sogno-sentimento nato dall’atto della creazione artistica torna all’opera anche da quelle rive, ovvero da tempi successivi e lontani.
Così è, in quanto l’opera d’arte è la fonte di una luce che illumina ogni mente ricreandosi ogni volta diversa pur mantenendo inalterata la propria origine.
Come la metafora usata, il manufatto artistico è il simbolo di un sentire e può essere usato, sulla spinta di differenti esigenze, senza perdere la sua significazione, ma al contrario moltiplicando la forza nel combinarsi con altri pensieri.
Le personali esperienze vissute proprio negli spazi della sala Convegni del Museo Omero mi hanno fatto notare che spesso chi guarda il mio lavoro mi riferisce su di esso riflessioni sorprendenti, rivelandomelo sotto una luce particolare.
Eppure avverto che quelle interpretazioni, quelle letture sono comprese in qualche modo nel mio sentire.
L’altro dunque completa il mio lavoro ed io, tramite il suo contributo, cresco e mi arricchisco. Tale è la forza della comunicazione, della condivisione e della comunione anche quando questa diviene scontro, urto che genera e tale è il valore di un’opera d’arte.
Mi ritorna in mente la grotta timbrata dalla mano dell’uomo e mi rendo conto che oggi siamo nella caverna, nel buio e che quella mano è ancora la scintilla da cui origina la luce della mente, il punto di contatto (non solo fisico) con l’altro, il tramite per avvertire il mistero che lega la pietra al sacro.
La sacralità del reale è avvertita dall’artista come bellezza ed è narrata nella forma dall’incontro degli opposti: la luce sfuma nell’ombra, il vuoto è definito e contenuto dai piani, le superfici ruvide coesistono con altre levigate.
Tramite l’accostamento degli opposti anche la tragedia e il conflitto trovano una loro dimensione estetica: la stessa luce contende lo spazio all’ombra suggerendo il senso della vita e rafforzando il desiderio di trascenderla.
Sull’onda di questa riflessione ho un’ambizione: vorrei ritrovare in me, nello scuro della mia memoria la giusta pietra da alzare con le nude mani perché sento che solo allora potrei dire di essere veramente uomo.