Aldo Grassini, presidente del Museo Tattile Statale Omero
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Parliamo della voce, di questo meraviglioso strumento di comunicazione che trasmette parole, emozioni, sentimenti, persino i pensieri più segreti. E mi viene alla mente una novella di Luigi Pirandello, strana, interessante e paradossale secondo lo stile del grande Scrittore siciliano. Si tratta di “Una voce” da “Novelle per un anno” in cui il nostro Autore immagina una situazione al di fuori di ogni logica, almeno per i suoi tempi.
Silvio Borghi, un giovane marchese, diventa improvvisamente cieco. Tra lui e Lydia, la sua governante e lettrice, che lo accudisce dopo la morte della madre, nasce ben presto l’amore e i due giovani decidono di sposarsi. A questo punto il dr. Falci scopre che Silvio non è affetto da una malattia incurabile, il glaucoma, e annuncia che potrà riacquistare la vista. Lydia si convince che la natura del loro rapporto d’amore sarà sconvolta dalla nuova situazione e così decide di lasciarlo. Riassumere Pirandello è un’impresa impossibile: non conta la vicenda, ma le implicazioni psicologiche, etiche e sociali che finiscono per costruire un intreccio così inestricabile da cui si può uscire soltanto rovesciando i dettami del buonsenso in omaggio alla logica delle convenzioni.
Per Pirandello il punto intorno al quale ruota la vicenda è questo: Silvio s’innamora di una voce, una voce dolcissima sulla quale egli costruisce l’immagine della sua donna che, pertanto, non corrisponde alla realtà. Ma Silvio riacquisterà la vista: questo evento felice per lui, diventa terribile per Lydia. Silvio potrà toccar con mano la falsità di quell’immagine e troverà davanti a sè un’altra donna, diversa dalla Lydia che lui ha amato, la cui immagine lei stessa ha concorso a creare. A questo punto Lydia non può resistere e se ne va.
Certo, Pirandello è un genio della letteratura e in modo magistrale si serve di una tal situazione inconsueta per rappresentare ancora una volta la sua concezione di una realtà per cui la persona non è mai se stessa, ma l’immagine che gli altri se ne fanno.
“Io sono colei che mi si crede “.
Così parla la Verità in “Così è (se vi pare)”.
Ma guardiamo che cosa dice Pirandello in questa novella.
” …Ella sapeva com’egli, per la malìa di questa voce (…) la vedeva; e si sforzava davanti allo specchio di somigliare a quell’immagine fittizia di lei, si sforzava di veder com’egli nel suo bujo la vedeva. E la sua voce, ormai, per lei stessa non usciva più dalle sue proprie labbra, ma da quelle ch’egli le immaginava; e, se rideva, aveva subito l’impressione di non aver riso lei, ma di aver piuttosto imitato un sorriso non suo, il sorriso di quell’altra sé stessa che viveva in lui.”
Soltanto le geniali contorsioni mentali di un Pirandello potevano concepire un quadro così assurdo e così coinvolgente! Ma la letteratura è una cosa, la realtà un’altra. Proviamo allora a rileggere la novella con occhio più moderno e più realista. Ci accorgeremo che Pirandello questa volta è proprio andato fuori misura!
Tanto per cominciare, diciamo subito che il glaucoma, malattia subdola e implacabile, non produce una cecità immediata, ma agisce lentamente e in modo irreversibile. In secondo luogo, appare inammissibile che, seppur un secolo fa, gli oculisti non fossero capaci di distinguere un glaucoma da una cataratta. Tuttavia, al letterato possiamo anche perdonare questi strafalcioni nel campo della medicina.
Molto più sorprendente è il modo con cui lo scrittore ci presenta la condizione del cieco. Certo, siamo agli inizi del Novecento e l’integrazione sociale dei non vedenti era ancora di là da venire. Ma Pirandello mostra una totale ignoranza circa la realtà e le possibilità di un cieco. Per lui è soltanto un “infelice”. La cecità viene definita ripetutamente come una “sciagura” senza aggettivi. Ed ecco come Pirandello descrive la cecità:
“Ma da questo bujo, chi abbia gli occhi sani può almeno distrarsi con la vista delle cose intorno: cieco per la vita, cieco ora anche per la morte. E in quest’altro bujo più freddo e più tenebroso, sua madre era scomparsa, silenziosamente, lasciandolo solo, in un vuoto orrendo.”
E’ la descrizione di una situazione irredimibile che non lascia scampo ad un briciolo di vita! Una condizione resa ancor più grave da un luogo comune che spesso ancor oggi si sente ripetere: il cieco è più concentrato perché non è distratto dalla visione delle cose. Qualcuno vede in ciò un vantaggio: il cieco è più riflessivo, più profondo. Per Pirandello è la mancanza di un qualsiasi appiglio capace di frenare la caduta nel baratro della disperazione. Ma questa maggiore concentrazione, appannaggio della cecità, è una bufala vera e propria!
La possibilità di distrarsi con le cose esterne è legata al rapporto più o meno concreto dell’individuo con l’ambiente: Può distrarmi un’immagine visiva nè più nè meno che un suono, una voce, una parola, un odore, un contatto. Una persona tutta chiusa in se stessa, può distrarsi ancor più di chi vive un rapporto dinamico con le cose e ciò non dipende certo dalla vista.
Nella novella pirandelliana Silvio sembra esser fuori del mondo e non aver neppure un suo mondo, rappresentato come il buio che coincide con il vuoto e si definisce soltanto come infelicità. Silvio è accudito, gestito come un oggetto; non ha volontà, non decide, non partecipa. E Pirandello, che è un maestro nel dipingere nel modo più sottile la fisionomia psicologica dei suoi personaggi, ci propone Silvio in forma assolutamente anonima; non ha personalità, non esiste, a differenza di Lydia e del dr. Giunio Falci che ci sono descritti con vivezza e precisione. E infatti l’amore di Lydia nasce da “compassione e tenerezza”, non dalla scoperta di un qualche valore umano, e l’amore di Silvio nasce dalla sua totale dipendenza. Si tratta di un rapporto sbagliato che poteva finire soltanto così. Come ci si può rapportare con il nulla?
Ecco come viene descritto l’amore di Lydia per Silvio:
“Egli non si vedeva: non vedeva altro entro di sé che la propria infelicità, ma era pur bello, tanto! e delicato come una fanciulla; e lei, guardandolo, beandosene, senza che egli se ne accorgesse, poteva pensare, “ecco, sei tutto mio, perché non ti vedi e non ti sai; perché l’anima tua è come prigioniera della tua sventura e ha bisogno di me per vedere, per sentire”.
E più avanti aggiunge:
“La cecità di lui era la condizione imprescindibile del suo amore.”
Ora veniamo al nocciolo della questione. Dunque Silvio s’innamora di una voce.
“A un tratto – non sapeva bene da chi – una voce di una dolcezza infinita era venuta a lui, come una luce soavissima. E a questa voce tutta l’anima sua, sperduta in quel vuoto orrendo, s’era aggrappata. Non era altro che una voce per lui la signorina Lydia(…)”.
Una voce su cui si fonda “un’immagine fittizia”.
E qui il buon Luigi incappa in un clamoroso autogol teoretico! Ma allora esiste un’oggettività cognitiva? Un’immagine fittizia, quella sonora, ed un’immagine reale, quella visiva? In questo modo il tanto conclamato relativismo pirandelliano dove va a finire?
Pirandello inconsapevolmente accredita un pregiudizio ahimè molto diffuso: negli occhi è il mondo reale, fatto di luce, di colori di forme percepite visivamente; il resto è illusione, è un mondo di fantasmi, di larve evanescenti. Ma la realtà è ben altra cosa: la realtà si afferra con tutti i sensi e la vista non è più concreta del tatto o dell’udito, del gusto o dell’olfatto. La conoscenza, – oggettiva o soggettiva che sia, – si serve di tutti i sensi per organizzare la propria immagine del mondo; anzi, i sensi non bastano. La realtà è fatta anche di elementi concettuali, di emozioni, di sentimenti, di esperienze le più complesse e del tutto trasparenti alla cecità. Il Silvio della novella, oltre che essere cieco, sembra che non sia in grado di pensare, di valutare. E’ la madre che, prima di morire, gli rivela le qualità morali della giovane governante. Povero Silvio! E’ cieco negli occhi e nella mente!
E’ comune l’idea che l’amore nasca dagli occhi e lo stesso Pirandello non riesce a capacitarsi come un cieco possa amare! Eppure sin dall’antichità il mito vuole che Cupido sia cieco. Ma siamo proprio certi che ci si innamori di un immagine? Di un uomo, di una donna diciamo che son belli soltanto per l’armonia delle forme o non piuttosto per la personalità che esse in qualche modo rivelano? Possiamo dire che sono bellissimi due occhi inespressivi? Un corpo è bello a guardarlo per quello che è in grado di mostrarci oltre le forme o attraverso le forme: la forza, la grazia, la fierezza, la sensualità, la timidezza, l’intelligenza ed altre mille sfumature dell’interiorità. Una bella donna può esaltare un play-boy per il vanitoso orgoglio di lui di apparire a se stesso e agli altri come un irresistibile conquistatore, ma in tutto questo l’aspetto fisico c’entra poco, non più della rilevanza sociale che fa di quella donna un personaggio irraggiungibile, almeno per un uomo comune.
Insomma, nessuno si è mai innamorato di un corpo: ci si innamora di una persona.
Lo sguardo è spesso un raffinatissimo indagatore di una figura umana: sa cogliere nella luce degli occhi i sentimenti più segreti, interpreta le espressioni del volto, decodifica gli atteggiamenti ed i movimenti, coglie i messaggi impercettibili che volontariamente o involontariamente vengono lanciati. Il gioco della seduzione è la capacità di nascondersi e rivelarsi al di fuori del visibile.
Di tutto questo è capace lo sguardo, ma la voce non è da meno. In primo luogo anche la voce può avere una sua bellezza, una sua ricchezza di sfumature paragonabile a quella di un bel volto. Il timbro, l’acutezza, la potenza, l’impostazione, la modulazione sono caratteristiche di ogni voce ed ogni persona ha la sua voce così come ha la sua fisionomia. Una voce può essere bella, attraente, affascinante. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, la voce è una rivelatrice ancor più raffinata dei sentimenti e delle emozioni. Una voce può esser sorridente o mesta, allegra o triste, forte o dimessa, fiera, timida, sicura, esitante, aggressiva, sfuggente e così via. E, soprattutto, la voce trasmette il pensiero, la voce ci consegna le parole ed è il ponte più diretto per entrare nell’interiorità della persona.
E allora, è possibile innamorarsi della voce senza innamorarsi della persona?
Diciamocelo francamente: Pirandello, grandissimo scrittore, straordinario indagatore dei grovigli psicologici ed etici prodotti dalle convenzioni sociali, questa volta è stato piuttosto superficiale e pur di portare acqua al mulino della sua ideologia, ha costruito un castello di sabbia che si disperde al primo soffio di un’analisi concreta.