Aldo Grassini, presidente del Museo Tattile Statale Omero
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Lo spazio è il luogo delle cose. Il tempo è il luogo dei pensieri.
Kant ci parla di un senso esterno quale forma dello spazio e di un senso interno quale forma del tempo. E così lo spazio e il tempo non sono più oggetti, ma condizioni soggettive, seppur universali, dell’esperienza possibile.
Ma già Sant’Agostino con quattordici secoli di anticipo aveva bruciato le tappe definendo il tempo come una “distensione dell’anima”, e insomma riducendolo a coscienza. E lo stesso Platone aveva già sottolineato l’inafferrabilità dell’attimo a cui si aggancerà il mito romantico del Faust goethiano.
Ma è il XX Secolo che s’impegna a distruggere definitivamente l’oggettività dello spazio e del tempo, in campo filosofico con Bergson e Heidegger, e in campo scientifico con la Teoria della Relatività di Einstein.
E l’arte poteva rimanere silenziosa e indifferente? L’arte del Novecento si tuffa in questo mare in cui non è sempre dolce il naufragare, e si nutre di soggettivismo. Il luogo delle cose e il luogo dei pensieri, insomma lo spazio e il tempo, si incontrano nella coscienza, in quell’area psicologica che è il mondo dell’uomo, il terreno in cui, spesso con affanno, egli cerca una sua dimensione, cerca quell'”ubi consistam”, quell’ancoraggio che offrirebbe una sicurezza, sempre inseguita e mai trovata.
L’arte è interiorità e coscienza, ma si distende verso le cose usando uno o più sensi che la proiettano verso il mondo, verso il luogo delle cose, e la trasformano, anche suo malgrado, in comunicazione.
L’arte dunque ha bisogno dei sensi, ha bisogno del mondo per trasformarlo in qualcosa di suo, in un’autentica esperienza estetica.
I sensi privilegiati sono la vista e l’udito: la vista per il luogo delle cose, l’udito per il luogo del pensiero. L’arte ha bisogno di immagini ed ha bisogno di suoni che diventano parole e concetti.
La vista e l’udito o, se vogliamo, la sensazione e il pensiero si allacciano nell’arte, e riconducono a unità lo spazio e il tempo per ritrovare “l’essentia”.
E il tatto? Che ruolo può avere nel produrre un’esperienza estetica?
Il tatto, il più bistrattato fra i sensi, e il meno conosciuto nasconde risorse inimmaginabili se si comincia a considerarlo senza pregiudizi e a sperimentarne seriamente le potenzialità.
Il tatto è l’unico senso, oltre alla vista, che riconosce le cose dalla forma; inoltre, esso, come l’udito, si muove attraverso il tempo. La costruzione di un’immagine tattile, – come ci insegnano i ciechi, – è il prodotto di un’attenta esplorazione tattile che si esprime nel tempo. Il tatto più di qualsiasi altro senso si muove in una stretta connessione tra lo spazio e il tempo e per questo è il più immediatamente propinquo all’essenza. E d’altra parte, l’unico senso capace di sostituire la vista o l’udito nella lettura del pensiero è proprio il tatto (pensiamo al metodo Braille per i ciechi o al Malossi ed altri metodi analoghi per i sordociechi).
Non dimentichiamo che anche il tatto possiede le sue peculiarità sensoriali ed è in grado di percepire, in modo esclusivo rispetto agli altri sensi, alcune qualità specificamente tattili, importantissime dal punto di vista cognitivo e molto accattivanti anche da quello estetico.
Il tatto, quindi, se è in grado di sostituire in molte funzioni gli altri sensi sul terreno pratico (come sperimentano quotidianamente i ciechi) propone all’arte un approccio alternativo alla visione. In questo esso è insostituibile per chi non vede, ma può rappresentare un’esaltante scoperta anche per un vedente, che può ritrovare così nozioni ed emozioni che la natura regala, ma egli ha totalmente dimenticato.
Vista e tatto possono dunque sostenersi ed alimentarsi vicendevolmente se smettiamo di considerare l’arte come un’attività puramente visiva e impariamo a farne il punto di incontro, anzi l’intreccio delle diverse vie che conducono al piacere della bellezza.
La multisensorialità è il punto d’arrivo. Essa mette in gioco tutti i sensi e abbatte molte barriere.