di Alice Devecchi.
Una superficie concava, nera, liscia. Immaginiamola ancorata ad una parete, all’altezza dove in genere sono appese le opere d’arte. Tutto sommato potremmo anche appoggiarla ad un tavolo, perché ha una sua struttura, una base – anch’essa nera – che alloggia nove lunghi cilindri, tutti uguali, in fila regolare.
Prego toccare.
Non sapendo da dove cominciare esploriamo i cilindri che sporgono dalla base. Scopriamo che sono pulsanti. Vanno premuti con forza. Ne premiamo uno qualsiasi dei nove.
Un soffio d’aria proveniente da un punto indefinito di quella superficie apparentemente inerte ci sorprende. Chiudiamo gli occhi, infastiditi e spostiamo la testa.
Chissà cosa succede premendone un altro?
Di nuovo, un dispettoso soffio d’aria ci coglie di sorpresa; stavolta però arriva da un altro punto.
Di nuovo, un po’ meno infastiditi, muoviamo la testa in reazione allo sbuffo.
Il gioco comincia a piacerci, siamo curiosi di indovinare da dove proverrà il prossimo soffio. Proviamo a indovinare un collegamento tra i pulsanti e le linee d’aria.
Scopriamo solo che la superficie nera è percorsa da tanti forellini invisibili. Da lì, in modo imprevedibile, proviene l’aria quando premiamo un pulsante. Continuiamo a giocare.
Intanto, le linee d’aria tracciano traiettorie intangibili ed evanescenti. I nostri gesti di avvicinamento e fuga le intersecano originando uno spazio provvisorio, tutto compreso tra lo schermo concavo e il nostro corpo.
È l’Oggetto a linee d’aria di Gabriele Devecchi, ed è il 1961.
In un momento storico di fermento per le Arti, di protesta verso la mercificazione dell’opera che trionfava con lo sbarco della Pop Art, di insofferenza nei confronti dello stereotipo dell’artista genio e della prerogativa ad esso attribuita di dare forma all’interiorità, una strada alternativa viene tracciata da chi concepisce l’arte come dispositivo massimamente democratico, inclusivo – si direbbe oggi – atto a rendere l’esperienza estetica accessibile non più solo attraverso la contemplazione ma sempre di più attraverso l’interazione, la partecipazione, fino alla co-produzione.
L’espressionismo astratto nostrano – l’Informale – aveva provato a mettere in atto una fuga dalla forma, comprendendo quanto essa generasse vincoli e confini compositivi inadeguati all’imperativo del gesto libero. La fiducia nella libertà del gesto, tuttavia, aveva presentato il conto: l’opera era diventata inaccessibile, chiusa, comprensibile al solo autore, e quindi percepibile in una dimensione esclusivamente contemplativa, intima e individuale.
Incomunicabilità, separazione netta tra artista e pubblico, tra spazio dell’opera e spazio della fruizione, costituiscono il contesto in cui Lucio Fontana sente l’esigenza di oltrepassare la tela, varcando – non solo simbolicamente – la frontiera della tradizione e tracciando numerose traiettorie di ripensamento della funzione dell’arte.
Tra queste traiettorie, una in particolare fa proprio un atteggiamento, una postura intellettuale riconducibile alle discipline di progetto, con l’intento di produrre attraverso l’arte un cambiamento.
L’arte – si sa – non ha una funzione utilitaristica, perlomeno non è vincolata ad averla. Che piaccia o no, non è compito dell’artista produrre qualcosa che abbia un’immediata utilità. Tuttavia, l’arte può facilitare il cambiamento, può agire sul comportamento umano e spianare la strada alle trasformazioni.
Una volta attraversata la soglia della tela, è verosimile attraversare anche la soglia della contemplazione, toccare l’opera, giocarci, manipolarla, co-crearla, come fosse una palestra per esercitare le nostre possibilità di agire nel mondo.
L’Oggetto a linee d’aria segue questa traiettoria. Qui, l’esperienza della forma si costruisce con i movimenti delle mani, della testa, del tronco in risposta alla sorpresa di un soffio inatteso.
Qui, la forma non precede l’esperienza. La forma si dà – in modo effimero, transitorio – insieme all’esperienza stessa, dalla quale dipende. La forma si fa e si disfa nell’interazione tra il corpo e l’oggetto ‘generatore’, muto, inerte, irrilevante se nessuno lo attiva. La forma non si tocca, qui; essa ingombra un volume variabile, disegnato dal movimento del corpo che gioca con lo spazio.
L’Oggetto a linee d’aria si propone come ‘protesi’ per l’apprensione del mondo, amplificatore di esperienza, riflettore acceso sull’esplicitarsi dell’interdipendenza tra oggetto, spazio e persona.
È il 1961 e Gabriele Devecchi padroneggia gli strumenti classici del disegno, della pittura e della scultura, dell’incisione e dell’argenteria. Con un background da artigiano, discendente dall’attività orafa del padre, manipola la materia con disinvoltura. Con agilità produce oggetti-interfaccia, protesi – appunto – per pro-tenderci verso lo spazio che ci circonda, dispositivi d’inciampo che solleticano i nostri sensi meno frequentati, invitandoci a sviluppare una consapevolezza più acuta del nostro posto nel mondo.
Siamo nel 2023. E abbiamo bisogno ancor più di allora di sentire lo spazio, la forma, gli oggetti e le persone. Di giocare, anche.