Loretta Secchi, curatrice del Museo tattile di Pittura antica e moderna Anteros
Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza – Bologna
La pratica delle discipline artistiche richiede acquisizione di paradigmi conoscitivi declinabili ai diversi contesti di vita e autonomia.
Le vie esperienziali delle persone non vedenti, ipovedenti e normovedenti, sono necessariamente diverse tra loro ma l’attività cognitiva segue le stesse regole di fondo e per questo risulta essenziale trovare strategie di ricerca efficaci per giungere, pur con opportuni accorgimenti e adattamenti, a medesime assimilazioni disciplinari. Le facoltà del pensiero sono sorprendentemente adattabili alle circostanze, se ben allenate, per questo la cecità non preclude la possibilità di argomentare ragionevolmente anche le funzioni conoscitive dell’Estetica. Emmanuel Kant attribuiva al pensiero dell’uomo tale grandezza da superare il cosmo, e all’esperienza estetica la capacità di immaginare e ripensare la realtà, al punto di estenderne i confini. L’esperienza estetica infatti si fonda sull’elaborazione intellettuale dei dati pervenuti attraverso il piacere edonistico. Vale in tal senso citare un’espressione di Aldo Grassini, fondatore e direttore del Museo Tattile Statale Omero di Ancona: “L’immagine nasce dai sensi ma si illumina di bellezza nell’intelletto”. Dunque l’immagine esperita dai sensi è il punto di partenza di una visione che via via si espande e approfondisce. La pittura pesa sul processo visivo, la musica sull’udito, la letteratura include in sé suoni e segni grafici e nel momento in cui manca il dato sensibile, ad esempio nelle descrizioni di opere o paesaggi, ricorriamo alla memoria senza per questo limitare l’esperienza estetica, anzi ampliandola per effetto di evocazioni e rammemorazioni di fenomeni già conosciuti. Si può dedurre, pertanto, che l’esperienza estetica sia un accadimento mentale e concettuale, oltre che percettivo. Far pervenire una persona non vedente all’emozione estetica, significa permetterle di elaborare intellettualmente tutti i concetti rappresentati nel manufatto artistico, veicolati dalle forme, facendoli esperire con i sensi residui. L’esperienza estetica è legata soprattutto alla mente, mentre la percezione sensoriale per quanto rimanga una condizione necessaria al fine di produrre immagini mentali, da sola non basta perché senza il sostegno dell’enunciato non può fornire una visione estesa della forma e del suo significato. Ma vale anche ricordare che per una circonstanziata conoscenza di un fenomeno, la descrizione dello stesso, per quanto esatta, non può sostituirsi alla percezione fisica dello stesso. Gotthold Ephraim Lessing nel 1766, in Laocoonte, ricorda il ruolo fondativo della parola – ancor più quando espressa con formulazione poetica – per condurre e liberare un’immaginazione mentale durante la fruizione dell’opera d’arte.
Per quanto fin qui detto, appare essenziale l’alleanza che si crea tra sensi e intelletto, ovvero tra percezione e cognizione, immagine e parola, tatto e udito, corpo e mente. L’aspetto decisivo dell’uso della parola, associato ad una immagine reale o a quella che ne può scaturire per estensione di senso, è la prima qualità della metafora come veicolo di trasmissione di ragionamenti allargati e di interpretazioni sottili che richiedono il domino delle facoltà superiori della mente.
La metafora (dal greco μεταφορά, da metaphérō, «io trasporto») è un tropo, dunque una figura retorica che implica un trasferimento di significato e si ha quando, al termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, se ne sostituisce un altro la cui “essenza” o funzione va a sovrapporsi a quella del termine originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. La metafora è totalmente arbitraria: in genere si basa sull’esistenza di un rapporto di somiglianza tra il termine di partenza e il termine metaforico, ma il potere evocativo e comunicativo della metafora è tanto maggiore quanto più i termini di cui è composta sono lontani nel campo semantico. Nella metafora non c’è un preciso piano cognitivo di riferimento, per tale ragione la si definisce una figura retorica di pensiero: ed è proprio questo il punto di forza e il rischio nell’uso della metafora. In assenza di appoggio propriamente cognitivo, essa richiede di avere acquisito i passaggi dal pensiero concreto a quello astratto, da quello astratto a quello simbolico. Difficile capire a quale campo appartenga la metafora, se alla linguistica, alla semiotica, alla filosofia estetica o alla psicologia. Nella conoscenza “additiva” la metafora, in particolare se usata in modo creativo, non solo abbellisce la proposizione: soprattutto ne accresce il contenuto. Il principio di “trasferimento” è quasi sempre stato all’origine della teorizzazione della metafora, ma ciò non ha compromesso l’opinione in base alla quale il più importante dei tropi è anche in grado di produrre “rapido apprendimento e conoscenza”.
Si può essere d’accordo o meno sul valore cognitivo della metafora e anche sul fatto che al contrario tutto possa essere spiegato senza adozione di metafore, tuttavia esistono casi in cui una descrizione solo letterale non produce alcuna estensione di significato del contenuto enunciato e questo è ancor più evidente quando si cerchi di tradurre stati d’animo e atmosfere che richiedano una corrispondenza tra cognizione ed emozione.
Con la metafora, ciò che si conquista è l’inusuale ma esatta corrispondenza tra pensiero abituale e intuizione profonda. Qualcosa che il linguaggio ordinario, consolidato e pragmatico, non sempre concede, e che invece un linguaggio evocativo e poetico, pur sintetico e asciutto, quasi sempre determina. Questa è ad esempio la caratteristica fondante il processo di associazione di idee determinato dalla lettura di certi componimenti poetici haiku di origine giapponese e anche di certa poesia ermetica del Novecento dove la sintesi sposata all’immediatezza della percezione di un fenomeno crea stupore e perfetta aderenza tra un sentire individuale e un sentire condiviso: un’atmosfera percepibile e in qualche modo rappresentabile solo in una forma non ordinaria.
I rischi personali e sociali provocati dalla sempre più diffusa assenza di immaginazione, consegna gli individui a forme di espressione riduttive e stereotipate. Si impone pertanto una riconsiderazione della relazione equilibrata tra esperienze verbali ed esperienze dirette della realtà, con particolare attenzione alla potenza dell’educazione sensoriale quale riappropriazione del sentire, entro lo sviluppo di quelle facoltà immaginative inibite dall’abbassamento della qualità percettiva e degli apprendimenti cognitivi, se questi ultimi non maturano attraverso l’interpolazione di pensiero e azione, esperienza pensata ed esperienza vissuta. Solo in un saper dire ciò che si è conquistato nel fare può esserci affrancamento dal verbalismo, e ciò non solo in condizioni di cecità fisiologica. Questo criterio vale infatti per tutti: non vedenti, ipovedenti e normovedenti. E’ questo, ciò che magistralmente la cultura orientale, nello specifico nipponica, definisce in termini educativi Waza Gengo, ovvero, tentando una traduzione di questo concetto: un insegnamento in cui la tecnica è insieme di competenze che coinvolgono mente e corpo. In questa dimensione si richiede un atteggiamento intuitivo, sensibile alla metafora insita nella buona pratica; sia nell’impartire un insegnamento, sia nel riceverlo: per interiorizzarlo, applicarlo a nuovi contesti e convertirlo in ulteriori abilità.
Come ritiene il filosofo Bryan Magee, il linguaggio non è solamente un insieme di proposizioni, ma è anche un insieme di metafore che portano a nuovi significati, a nuovi modi di essere, ossia a quell’insieme di comportamenti, di sentimenti, azioni e culture che il linguaggio stesso sottende. Infatti la metafora ha come qualità l’essere un elemento che pur divulgando un concetto con approssimazione (il linguaggio metaforico non ha precisione tecnica e scientifica) si collega molto bene con il comportamento naturale del fenomeno descritto e dunque favorisce la nostra immaginazione, stimolando competenze interpretative allargate, atte a farci intendere il mondo che ci circonda. Resta che comunicare le metafore alle persone non vedenti, soprattutto se congenite, implica saper tradurre in contenuti esperibili ciò che parrebbe altrimenti volatile, e impone di scomporre e ricomporre, in contesti esperienziali di vita e secondo variabili comprensibili, il complesso sistema di associazione di idee che dimora nel meccanismo stesso della metafora. Questo esercizio mentale è parte integrante dell’essere umano; non considerare che la metafora porti con sé un valore, sia esso cognitivo o concettuale, determina la negazione del pensiero. Le idee non sono rese esplicite dalla metafora, è vero, sono solo suggerite, e la nostra mente per questo è obbligata all’azione interpretativa e immaginativa. Si tratta di una facoltà che l’uomo possiede e conquista per la capacità che ha di creare immagini verbali e parole visive, percezione del reale e sua concettualizzazione: dunque mediante elaborazioni intellettuali dei percetti, secondo processi mentali analogici e anagogici, per effetto di un’interpolazione di conoscenza esperienziale e proposizionale.