Paolo Legrenzi, professore emerito di Psicologia dell’Università Ca’ Foscari – Venezia, Presidente del comitato scientifico di X-ITE, centro di ricerca LUISS, e del Ca’ Foscari Competency Centre
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Non sappiamo, e probabilmente non potremo mai sapere con precisione, come la capacità di percepire e immaginarsi visivamente il mondo si sia formata nella lunga storia evolutiva della nostra specie e in quella di popolazioni che ci hanno preceduto. Possiamo supporre che Homo Habilis già sapesse rappresentarsi uno scopo futuro e che la struttura del suo cervello non fosse così dissimile da quella attuale: si stava plasmando già allora, secondo il grande meccanismo darwiniano della variazione casuale e della selezione.
L’uomo ha poi continuato a evolversi nei due milioni di anni successivi all’Homo Habilis fino alla formazione dell’architettura della mente che ci ritroviamo oggi. Ed è l’unica coppia mente/cervello che possiamo studiare a fondo invece di prospettare ipotesi sul come si sia formata. Abbiamo tuttavia degli indizi che indicano come il sistema attuale si sia formato migliaia di anni fa, nell’ambito di forme di vita e di scenari esistenziali in cui la rapidità di decisione era cruciale. Tanto più una decisione vitale deve venire presa in poco tempo, quanto più essenziale è che essa sia l’esito di un processo che si svolge nell’inconscio cognitivo. In effetti, le nostre azioni si basano spesso su processi rapidi e intuitivi. Talvolta, però, hanno bisogno di nutrirsi di pensieri lenti, ragionamenti che spesso vengono elaborati dopo che è stata bloccata la rapida e spontanea risposta iniziale, quella offerta dalla nostra intuizione. L’intuizione fa affidamento per lo più su pensieri veloci che però talvolta ci portano fuori strada. Questi pensieri veloci si traducono in quelle euristiche di cui ci ha parlato Daniel Kahneman nel suo ormai classico “Pensieri lenti e pensieri veloci”.
Molti indizi provenienti dal funzionamento del sistema visivo indicano che l’inconscio cognitivo è l’erede di lunghe vicende del passato, quando i nostri antenati campavano da cacciatori raccoglitori. Erano tempi in cui era essenziale procedere in tempi brevissimi al riconoscimento degli stimoli ambientali. Questi potevano essere fonte di offesa in un ambiente ostile: nemici, animali feroci e altri pericoli. Molte ricerche mostrano che il riconoscimento dei visi avviene prestissimo in età evolutiva e si basa su processi rapidi che si servono di pochi indizi. Questa rapidità è utile ancor oggi quando, per esempio, guidiamo nel traffico e dobbiamo prendere decisioni in modo automatico, senza riflettere troppo.
Abbiamo però motivi per credere che il nostro sistema visivo non sia del tutto adeguato agli ambienti di vita contemporanei dove, per esempio, le luci non provengono solo dall’alto ma anche da altre fonti. Si è detto degli insetti notturni che non temono la luce artificiale, al contrario ne sono risucchiati. Un tempo l’attrazione automatica delle fonti di luce non era fatale perché l’illuminazione dell’ambiente proveniva da un’unica sorgente assai lontana, la luna o il sole.
Grazie a una serie di eleganti esperimenti, Dorothy Kleffner e Vilaynur Ramachandran hanno dimostrato che anche il sistema visivo dell’uomo contemporaneo funziona assumendo che la luce provenga dall’alto. Questa assunzione è stata valida per milioni di anni, prima della civiltà tecnologica contemporanea, cioè da quando, poco più di un secolo fa, abbiamo introdotto fonti di luci artificiali. Kleffner e Ramachandran lo hanno dimostrato con figure come la seguente:
La figura viene vista come fatta di cavità e sporgenze circolari. Il vederle come concave o convesse dipende dalle ombreggiature e dall’assunzione che tali ombre siano causate da una luce che cade dall’alto.
Si tratta di figure ambigue che possono essere viste come sporgenze o rientranze, benché si abbia a che fare in realtà soltanto con sfumature diverse di chiaro-scuri collocate su uno sfondo bidimensionale piatto e omogeneo. Nella figura c’è un miscuglio di oggetti costruiti in modo tale che le ombre degli uni siano speculari a quelle degli altri: la parte chiara di alcune sfere diventa scura nelle altre e viceversa (i due studiosi le chiamano mirror-images, immagini-specchio). Il punto cruciale è l’impossibilità di vedere tutti gli oggetti simultaneamente come concavi o convessi. La conclusione è che:
“Il sistema visivo si serve delle ombre come indizi. Interpreta così la natura delle forme. Esso incorpora l’assunzione tacita che ci sia una sola fonte di luce. Tale fonte illumina l’intera immagine visiva. La derivazione delle forme dalle ombreggiature non è un’operazione strettamente locale, ma coinvolge un’ipotesi globale sull’origine delle fonti di luce”. (Kleffner e Ramachandran, Perception & Psychophysics, 1992).
Ora è evidente che tale assunzione globale è tacita e fa parte dell’inconscio cognitivo. E’ plausibile supporre, come fanno i due studiosi, che il nostro inconscio cognitivo rifletta il funzionamento delle ombre in ambienti in cui le uniche fonti di luce erano collocate soltanto alte in cielo e lontane: sole e luna. La dimostrazione diretta si può fare semplicemente. Basta capovolgere la figura seguente. In questo modo quello che si vede in a diventa quello che si vede in b e viceversa. L’effetto si spiega solo assumendo che la parte dell’inconscio cognitivo dedicata alla percezione funzioni con l’assunzione tacita della fonte unitaria di luce dall’alto.
Se capovolgete la figura girando il libro, quello che si vede in a diventa quello che si vede in b e viceversa. L’effetto si spiega assumendo che la parte dell’inconscio cognitivo dedicata alla percezione funzioni con l’assunzione tacita della fonte unitaria di luce dall’alto.
Molte illusioni visive costruite con immagini artificiali sono l’esito dei tentativi di confondere un sistema visivo che non era stato costruito per affrontare problemi di tal fatta.
Nel libro che ho scritto con Carlo Umiltà, da cui è tratto questo pezzo (Molti inconsci per un cervello, Mulino, Bologna, ottobre 2018), ho sviluppato tale problematica cercando di spiegare in dettaglio perché i processi percettivi funzionano in modo inconscio e fanno parte di quel complesso di processi che oggi va sotto il nome di “inconscio cognitivo”.
La percezione può apparire talvolta ingannevole.
La forza di questo quadro (1954)di René Magritte deriva dall’uso di luci e ombre incoerenti per creare effetti paradossali e misteriosi (nella parte di sopra è rappresentata la luminosità del giorno, sotto l’oscurità della notte). Dice Magritte: “Ho rappresentato due idee diverse, vale a dire un paesaggio notturno e un cielo come lo vediamo di giorno. Trovo che questa contemporaneità di giorno e notte abbia la forza di sorprendere. Chiamo questa forza poesia.”
E tuttavia, oggi, è più pericolosa, rispetto agli inganni della percezione, quella funzione spontanea dell’inconscio cognitivo collegata alle decisioni relative al sapere di sapere e quelle relative al sapere di non sapere, tema a cui abbiamo già accennato alla fine del capitolo precedente. L’inconscio cognitivo qui sta sullo sfondo perché si tratta di decisioni apparentemente consce anche se infondate. Sembra che alle volte l’intuizione si riaffacci e non ci si possa fidare troppo del suo intervento perché tende a prospettarci delle risposte spontanee e immediate che si rivelano poi, a una riflessione più attenta, infondate e fuorvianti.