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Da sempre si discute su cosa sia l’arte e su quali siano i suoi presupposti o limiti. Per alcuni l’arte è un’espressione della fantasia, per altri è semplicemente una forma di comunicazione. Più propriamente potremmo dire che l’arte è qualcosa che suscita un’emozione che, altrimenti, sarebbe indotta da fenomeni di tutt’altro genere. Un paesaggio sconfinato, ad esempio, ci suscita pace e immensità, un neonato un senso di tenerezza e dolcezza; se un’opera dell’uomo riesce a darci le stesse sensazioni… ebbene è arte. L’arte è dunque un talento, un’espressione del genio umano attraverso il quale “si crea per generare e suscitare”.
Tra tutte le sue forme l’arte figurativa è senza dubbio quella che più sembra manifestare e dare spazio alla fantasia nella ricerca del valore estetico. Per questo, nell’opinione e nell’immaginario comune all’opera d’arte si lega indissolubilmente il concetto del bello al punto da diventarne quasi un valore fondamentale. L’arte genera bellezza: è questo il senso e lo scopo che, per secoli, si è dato a questo particolare moto dell’animo umano al punto da costruirvi sopra, soprattutto alla fine del XVIII sec., un intero pensiero filosofico. Solo l’arte moderna, con la sua messa in discussione dei valori tradizionali e la sua continua ricerca, sembra aver abbattuto quest’idea preconcetta e granitica. Quello della bellezza rimane, comunque un valore assoluto, per quanto di difficilissima definizione. Forse proprio definire la bellezza potrebbe aiutarci a definire l’arte.
Allora: cos’è il “bello”? Dire che è qualcosa di gradevole a vedersi significa darne una definizione assolutamente limitata e superficiale, del tutto incompleta. Significa relegarne il valore emotivo alla sua mera percezione visiva, a un’estetica costruita su un esercizio di forme e colori. Come se la bellezza fosse un valore legato esclusivamente a uno solo dei nostri sensi: la vista. Eppure, almeno in un altro caso noi prendiamo in prestito la bellezza e suscitiamo il senso dell’arte, con tutta la sua carica emotiva: quando ascoltiamo qualcosa che ci piace. Anche una sinfonia o una poesia possono essere belle. Essere opere d’arte.
Dunque solo due dei nostri sensi sembrano in grado di percepire la bellezza e dunque il valore dell’arte. Gusto e olfatto, infatti, sembrano più orientati verso funzioni sostentative, definendo ciò che è “buono” e commestibile. Questa distinzione (che a qualcuno potrebbe sembrare puramente linguistica) esprime una differenza sostanziale proprio dal punto di vista emotivo. Da questa disquisizione sembra rimaner tagliato fuori il tatto, un senso considerato spesso secondario, relegato alla percezione quasi “animale” della materia che ci circonda. Il nostro impulso di toccare ciò che ci piace non viene quasi mai percepito come un’acquisizione di bellezza ma come una forma di conoscenza. Eppure succede spesso che, accarezzando qualcosa o sfiorati da un gesto affettuoso, pensiamo “che bello!”. Dunque, incredibilmente, anche il tatto può percepire la bellezza.
Creando arte è allora importante soddisfare anche questo nostro senso così spesso trascurato. In questo senso, la scultura è senza dubbio l’arte figurativa più completa perché, oltre che di forme, si avvale soprattutto di percezioni tattili.
Dunque il “bello” si tocca e chi fa arte non può in nessun caso prescinderne. Anzi, gli artisti sono i primi a toccare questa bellezza che, letteralmente, si forma tra le loro mani. A differenza dei pittori, degli scrittori e dei musicisti, infatti, gli scultori sono gli unici a poter avere con le loro opere un rapporto addirittura “fisico” e volumetrico, fatto letteralmente di carezze, contatti, pressioni e colpi. Sia che si tratti di plasmare l’argilla o la cera, come pure di scolpire la pietra o intagliare il legno, infatti, lo scultore agisce direttamente sulla materia con la forza delle proprie mani, assistendo in tempo reale all’effetto della propria manipolazione. Non sorprende allora che Pigmalione, il mitico artista di Cipro che si innamorò della propria opera conferendole la vita, fosse proprio uno scultore e che il suo capolavoro fosse una bellissima statua di donna.
Fin dalla più remota antichità, quando la manifestazione artistica era legata indissolubilmente al sacro, questo carattere “tattile” era fondamentale. Basti pensare alle cosiddette Veneri Paleolitiche o agli idoli primitivi, la cui funzione protettiva era connessa probabilmente con il loro essere stretti tra le mani o tenuti accanto a sé. Non sorprende che in tutte le civiltà i simulacri del culto siano sempre stati oggetti scultorei e che solo in epoca relativamente recente, a opera della spiritualità orientale bizantina, la sacralità sia stata assimilata a opere pittoriche, nella fattispecie le icone. Toccare queste opere e questi oggetti di culto è sempre stato essenziale per ottenerne la protezione, manifestarne la venerazione o, addirittura, ottenerne il potere taumaturgico.
La statua, del resto, esercita un fascino particolare conferito dalla volumetria che le dà un senso di realtà. Alcune opere scultoree, come il celeberrimo Guidarello di Ravenna o Ilaria del Carretto di Lucca, suscitano ancora oggi una tale emotività da richiamare frotte di turisti innamorati.
Già nell’antichità classica si preferirono a volte alcuni tipi di marmi rispetto ad altri per il diverso effetto che producevano al tatto e, per questo stesso motivo, si idearono diverse forme di lisciatura o lucidatura.
Alcuni artisti ebbero un rapporto talmente fisico e tattile con le loro opere da rasentare quasi la carnalità. Di alcuni, addirittura è stato possibile perfino rilevare le impronte digitali di tutte le dita (come nel caso del Bernini sulle decine di bozzetti in terracotta che ha prodotto).
Tra gli artisti più “tattili” ci fu senza dubbio Michelangelo, che con il marmo ebbe un legame assolutamente intimo e affettivo. Egli amava dire di avvertire già in cava quale creatura si celasse racchiusa all’interno del blocco in attesa di essere liberata e, per questo, si recava personalmente a Carrara per scegliere i blocchi da lavorare dopo aver ripetutamente toccato la parete rocciosa. Si dice anche che, divenuto in età tarda quasi completamente cieco, si facesse spesso accompagnare in Vaticano per sfiorare e abbracciare la complessa anatomia del celeberrimo Torso del Belvedere, un’antica statua marmorea da cui asseriva di aver tratto ispirazione per molte sue opere. Nonostante questa tradizione non abbia alcun riscontro nelle fonti dell’epoca, essa sembra inquadrare bene la personalità del grande scultore, che con le sue statue ebbe sempre un contatto molto diretto e forte. Lo dimostra l’accesa “materialità” di molte delle sue opere, che Michelangelo lasciò volutamente grezze affinché si potesse percepire il calore vibrante del marmo appena sbozzato accanto al freddo della parte lisciata e lucidata. Curioso che in quasi tutte queste opere la parte lasciata grezza è proprio quella che, tendenzialmente, sembra più a portata dell’osservatore o ispira maggiormente di esser toccata. Come a volerne trasmettere più l’essenza celata nella pietra che la forma rivelata dall’artista. In Michelangelo il “non finito” diventa “infinito”.
Questo stesso spirito passò, com’è logico, nell’artista che maggiormente parve ispirarsi a Michelangelo, lo scultore francese Auguste Rodin. In lui, non solo sopravvissero il non-finito e la materialità michelangioleschi, ma il tatto acquistò una tale importanza che alcune sue opere si ridussero a rappresentare delle sole mani nell’atto di sfiorarsi o stringersi, riducendo in questo l’intera complessità di un’emozione un sentimento.
Com’è logico, il maggior rapporto tattile con le loro opere lo ebbero soprattutto gli artisti che lavoravano i materiali plastici, dalla cera alla terracotta al gesso, da cui spesso si trassero realizzazioni in bronzo. Molti di loro, infatti, preferirono utilizzare direttamente le mani nude anziché strumentazioni specifiche. Altri, pur dovendo realizzare opere in marmo, preferivano eseguire dapprima la scultura in materiali plastici per poterne sentire la forma che si modellava sotto le mani. Un caso interessante, in tal senso, fu ad esempio Antonio Canova, massimo esponente del Neoclassicismo di primo Ottocento. Come testimoniato anche dal suo amico e biografo Hayez, egli eseguiva ogni suo modello in creta, traendone poi un calco in gesso. Erano poi i suoi allievi a trasferire il modello nel marmo sbozzandone le forme con vari gradi di finitura; Canova interveniva solo alla fine per i dettagli e la lisciatura.
Altri artisti giocarono letteralmente con la materia facendo in modo che, al tatto, risultasse indefinita. L’impressionista torinese Medardo Rosso, ad esempio, eseguì moltissimi ritratti di bambini modellandone le fattezze in cera come se scaturissero dalla materia grezza. In molti casi, dopo averne attuato la fusione in bronzo, egli preferì passare sull’opera acidi corrosivi in modo da dare alla superficie delle opere quella granulosità che, al tatto, simulava l’effetto della pietra e trasmetteva una maggiore “intimità”.
Anche lo svizzero Giacometti preferì modellare molte sue opere con le mani, nella convinzione che in questo modo le superfici esprimessero un maggior dinamismo.
Dunque gli stessi artisti sembrano suggerire spesso un rapporto tattile con l’arte. C’è da chiedersi quanto, nel nostro pensiero ossessivo di salvaguardare le opere d’arte dalla contaminazione o dal tocco dell’osservatore, ci priviamo della loro conoscenza o della percezione emotiva che queste stesse potrebbero trasmetterci e per cui, in realtà, sono state create.