Luigi Mariani, pianista e direttore d’orchestra
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La Musica accarezza le orecchie così come le dita sfiorano gli strumenti che la producono.
Gli strumenti si suonano attraverso le mani, amorose e affettuose, premurose; talvolta indugianti, tal altra aggressive, violente, graffianti. I tasti sono la propaggine di una corda che dall’arco viene cercata e intimamente sollecitata. Il fiato attraversa la superficie cilindrica, crea una colonna d’aria. Ma le labbra sfiorano, toccano, baciano l’ancia.
Il rapporto con lo strumento diventa fisico proprio come quello che si crea tra il fruitore cieco dell’opera scultorea che lo fronteggia. L’alchimia trasforma la partenza, l’imprinting, che viene rilanciato nelle più diverse aree dello spirito. Stando così le cose, è necessario poter parlare di musica come di materia da toccare, almeno nel processo primario.
Ho suonato pianoforti dalla tastiera poco piacevole al tatto: il suono bellissimo non era però sufficiente a favorire una piena esperienza di godimento completo. Dovevo chiudere un po’ del mio “grandangolo”.
Il buio rappresenta un ambiente che amplifica, proprio come una cassa di risonanza, ciò che la musica rende manifesto.
La pausa musicale rende ciò che il tatto nel buio viene a significare.
I bambini disegnano, colorano, il loro immaginativo fantastico prende perciò forma. Il bambino che non vede gioca con i suoni. Tocca la materia e sperimenta i diversi stati d’animo: polistirolo, carta vellutina, sughero, cartavetro. Mille sensazioni, mille colori. I suoni e i diversi timbri degli strumenti musicali partecipano a questa “fiera gioiosa” della conoscenza.
Grazie alla mia collaborazione con la scuola di Colonia, ho incontrato bambini e ragazzi che davano alle differenti altezze dei suoni, non soltanto il nome di riferimento (D per re, G per sol), ma parlavano di un G blu, di un D verde e così via. Non è certamente una novità: spesso si è parlato di questo tipo di “colorazione” della realtà che ci circonda da parte delle persone cieche. Creare però una standardizzazione non è sempre corretto. Quando ci troviamo di fronte un quadro abbiamo certamente parametri oggettivi ma c’è molto di soggettivo. La parte soggettiva, nelle circostanze di cui stiamo trattando, ha uno spazio molto ampio e perciò meno investigabile scientificamente.
Il cieco musicista diventa sciamano.
Quando il bambino cresce, attraverso l’arte dei suoni, il gioco delle perle di vetro, ecco che, all’interno di un gruppo, il suo ruolo può diventare davvero determinante: suonare non significa solamente garantirsi un “lavoro retribuito” e un conseguente posto in società: oggi è rischioso mettere in relazione lo studio della musica con una professione perchè si presuppone uno studio molto serio e spesso difficile da sostenere al termine del quale competizione e concorrenza, oltre che tutta una serie di altre difficoltà oggettive, potrebbero non concretizzarsi negli obbiettivi sperati. Suonare senza lo studio “pazzo e disperatissimo” ha sempre grande importanza. Chi suona uno strumento diviene una figura centrale nel gruppo, può perciò acquisire sicurezza e sperimentare un posto significativo, talvolta stimola la leadership. In definitiva, professionale o amatoriale, lo studio della musica, da parte delle persone cieche, è un’opportunità che può riservare sorprese e perciò andrebbe sostenuta e incentivata.