Bertrand Verine, dottore in Scienze del linguaggio, Università di Montpellier – Presidente Federazione i Ciechi Ambliopi di Francia in Languedoc-Roussillon
L’antropologa Christel Sola intitola uno dei suoi articoli «Non ci sono parole per dirlo, bisogna sentire», e poi descrive dei professionisti del cuoio, della pelliccia, della stoffa, del legno e della ceramica, che usano il tatto e parlano delle loro sensazioni tattili. La sua ricerca indica che questi artigiani si servono in maggioranza di parole conosciute da tutti per costruire il loro discorso specialistico che avrà conseguenze precise sull’oggetto che lavorano. Gli esperti in pelletteria, ad esempio, riconoscono col dito, e non con l’occhio, la specie animale, la parte del corpo, le qualità o i difetti tecnici e persino il nome del conciatore di un determinato pezzo di cuoio. In queste professioni, come in tutte le attività umane, nominare i materiali, le loro proprietà e le operazioni che si applicano loro è fondamentale per elaborare, memorizzare e condividere i saperi e le competenze.
Questo ci mostra che la carenza delle parole è un pregiudizio. Gli storici aggiungono che questo pregiudizio ha potuto, secondo le epoche e le società, riguardare ciascuno dei cinque sensi, e che può dunque invertirsi. Una tale inversione si è prodotta, ad esempio, per il gusto con lo sviluppo del discorso culinario. La mediatizzazione attuale della gastronomia prova che la sua marginalizzazione fino alla fine del XX secolo non era dovuta al linguaggio stesso, ma alla sottovalutazione di questa percezione nei discorsi e nelle pratiche culturali. Come persona cieca, ne concludo che ognuno debba imparare a toccare e a parlare del tatto, e che ciò dovrebbe esser insegnato, soprattutto se si considera un processo che sia cosciente delle sensazioni della persona che tocca e insieme attento a quanto sia sottile l’oggetto toccato.
È vero che non c’è, nelle lingue romanze, un nome generico per riferirsi a ciò che si percepisce attraverso il tatto, né alla rappresentazione mentale che il tatto permette di creare: si vedono immagini, si sentono suoni, si fiutano odori e si assaggiano sapori, ma si toccano materie, consistenze, ecc., cioè delle proprietà specifiche allo stesso modo dei colori per la vista o dei timbri per l’udito. Ma si deve immediatamente aggiungere che, se un gruppo sociale ha bisogno di nominare un oggetto, una proprietà o un fenomeno, può ad ogni momento proporre una parola nuova, o un nuovo significato per una parola già esistente.
Di conseguenza, una variante della lista delle parole mancanti consiste nel dire che queste esistono soltanto per gli specialisti di un certo campo del sapere, ma che sono inaccessibili agli utilizzatori ordinari della lingua. Anche questo è un pregiudizio. Perché, se risponde ai bisogni dell’insieme di una comunità, qualsiasi parola specialistica può diventare di uso completamente corrente. E’ il caso, ad esempio, dell’aggettivo «elastico», che è stato formato dai fisici e medici del XVII secolo a partire dal greco antico. Ma, già nel secolo seguente, grazie ai prodotti industriali, l’aggettivo è stato usato nella vita di ogni giorno ed è servito da base al nome « elasticità » e all’avverbio « elasticamente », conosciuti da tutti.
Soprattutto, l’interesse maggiore del vocabolario non è, come si è affermato talvolta, di proporre la migliore lista possibile di etichette da incollare sulla realtà, ma di potersi combinare quando ce n’è bisogno per affinare i significati scambiati. Quando sembra difficile nominare o caratterizzare un oggetto percepito, e se questo è rilevante per la comunicazione, basterà sviluppare la sua descrizione, cosa che si può fare in tre modi principali. Innanzitutto, si possono combinare delle caratteristiche che vanno a sfumarsi o correggersi tra loro, come in questa frase di una partecipante a una delle mie ricerche: «all’improvviso i nostri piedi si conficcano in uno spessore denso e duro » (Verine 2009, p. 92).
In seguito, si possono comparare tra loro certe parti dell’oggetto descritto. Lo stesso bronzo, ad esempio, può presentare superfici lisce, altre finemente spazzolate ed altre più o meno granulose o alveolate; certe offrono creste più o meno vive o vene più o meno gonfie. Queste sfumature sono accessibili alla vista per deduzione, ma solamente l’esplorazione manuale è capace di apprezzarne la sottigliezza, e solamente la sua espressione verbale è capace d’integrarla in una fruizione estetica. Infine, si può comparare l’elemento descritto a esperienze di percezione più o meno apparentate. E’ quello che fa un intervistato di un’altra ricerca : «e sull’altro lato, qualcosa un po’ rugoso che potrebbe assomigliare a qualcosa che può facilmente sfaldarsi perché, quando si passa la mano qui così, si direbbe come se fosse carta, anche se non lo è ». Questo frammento illustra allo stesso tempo il problema del vocabolario tattile e la sua soluzione. Il problema, percepibile nei brancolamenti del suo discorso, risiede nella mancanza di abitudine a descrivere tattilmente nella conversazione, e nella scarsa frequenza di modelli scritti di descrizioni tattili. La soluzione risiede nel riferimento ad una percezione che si suppone conosciuta dall’interlocutore, quella di una materia che «si sfalda», o ad un altro materiale corrente, la «carta».
Inoltre, i materiali forniscono un ricco repertorio di comparazioni o di metafore per allargare il ventaglio delle consistenze. Nelle mie ricerche, gli interlocutori parlano «di raso, di velluto» per evocare dei fiori o le orecchie di un cane, e della « consistenza plastificata del tipo buccia di arancia » per l’interno della portiera di una macchina. E quando questi materiali sono riconosciuti collettivamente come prototipici di una categoria di sensazioni, si creano degli aggettivi a partire dai loro nomi. Per la consistenza, si menzioneranno, tra tante altre, le coppie « creta / cretoso », « farina / farinoso » o « seta / serico ». Si percepisce così che, anche se il vocabolario è per definizione limitato (nel caso contrario, il dialogoo diventerebbe impossibile), la base stessa della comunicazione consiste nell’oltrepassare questo limite facendo giocare tra loro le parole e ricorrendo alle conoscenze più o meno condivise tra gli interlocutori. Dunque, l’espressione delle percezioni tattili non si limita al vocabolario, poiché può dar luogo a combinazioni di parole, giochi di significato ed elaborazione di sequenze lunghe.
Così, le parole del tatto esistono, e i sottili campioni proposti qui devono soltanto essere sviluppati ; ciò permetterà ai vedenti che toccano di affinare la coscienza delle loro sensazioni. Nella maggioranza dei casi, non ci facciamo attenzione, perché ne parliamo nel volgere di un colloquio, come elementi addizionali, di contesto, che permettono di aumentare il realismo visivo, che rimane il riferimento. Ognuno di noi ha l’opportunità di coltivarli e di diversificare il nostro vissuto abitualmente solo uditivo e visivo con esperienze simili a quanto fa il l Museo Tattile Statale Omero di Ancona. Perché, se oltrepassiamo il modo oggi più frequente di rappresentare la percezione e di esprimerla verbalmente, e se diamo la parola alle percezioni tattili (ma anche olfattive, cinestesiche, ecc.), accediamo ad un’« Altra bellezza del mondo ».